Sono piena di difetti ma se c'è una cosa che
so fare è affrontare ciò che la vita mi mette davanti con lucidità di analisi e
questo mi ha sempre consentito di reagire prontamente. Non significa non
crollare, solo tenere la testa alta mentre lo si fa.
Questi giorni però no, ho perso la padronanza
dei miei pensieri, la mia testa era come un dipinto di Pollock nel quale i getti
di tempera si intersecavano, i livelli di ragionamento si sovrapponevano
impedendomi di mantenere il filo.
Senza tregua le emozioni hanno guidato il
pennello dei pensieri in maniera apparentemente sconnessa, tracciando schizzi
dai colori differenti, ognuno appartenente ad uno stato d'animo, ad ua delle
sfaccettature di me che normalmente agiscono distintamente.
Quando siamo partiti per questo
accompagnamento ci avevano avvisato che avremmo potuto incontrare i
paramilitari ma io non ci avevo fatto troppo caso. C'è gente che è qui da tre
annoi e non li ha mai visti perché si ritirano quando i militari gli passano
l'informazione che stiamo arrivando. Ma questa volta pare che l'ordine di
avanzare, di prendere anche la parte di cordigliera al confine con quella sotto
controllo FARC, sia arrivata proprio dall'esercito.
E così ce li siamo trovati davanti fin dal
primo istante ed è stato lì, credo, che la mano invisibile che tiene il
pennello dei pensieri ha iniziato a scattare, lasciando sul foglio le prime
gettate di colore.
Il grigio ha accompagnato le prime ore, che in
realtà per quanto infinite messe assieme hanno fatto un giorno. E'il colore dell'incertezza
che mi ha colto quando ero sulla mula e stavamo entrando nella vereda, i miei
compagni erano dietro di me a piedi, l'accompagnato davanti su un cavallo.
Inizialmente non l'avevo neanche visto quell'uomo con la maglietta arancione in
cima alla collina dalla cui ombra spuntava la sagoma di un fucile. Un minuto
dopo era già a metà della discesa, correva verso di noi, arma alla mano, con
altri tre uomini mezzi in divisa. Ci hanno raggiunto sulla piana e si sono
fermati a osservare il nostro passaggio; avevo appena finito di dirmi che nel
grigiume della prima volta avevo fatto bene a non rispondere al saluto, quando
alzato lo sguardo ne ho visti altri quattro. Camminavano dandoci le spalle e
andavano nella nostra stessa direzione: davanti a noi la cancha piena di gente
perché si giocava la partita del venerdì. Mi ripassavo nella testa la lista di
cose che dovevo fare o on fare in quella situazione se afferrare le
informazioni che mi autofornivo. Ho lasciato che il color fumo prendesse il
sopravvento mentre chi aveva più esperienza di me gestiva la situazione; la
testa sapeva dove voleva andare ma c'era troppa nebbia per intravedere la
direzione.
Ne ho visti almeno 50 di paramilitari in
questi giorni, hanno attraversato la vallata una volta in una direzione una
volta in un'altra; sono passati in gruppi più o meno piccoli; a volte in abiti
civili, a volte con uniformi, altre incappucciati, si sono susseguiti dandosi
il cambio, così come si sono susseguite le domande che mi ponevo e il giallo di
cui erano tinte.
Giallo, come il colore di quei libri o quei
libri di cui fino alla fine non si può dire con certezza di aver capito il
senso. La macchia più grande appartiene a lui, Carlo come abbiamo deciso di
chiamarlo per non farci intercettare. Era arrivato la seconda sera nella casa
in cima ad una collina dove ci ritiravamo quando la notte calava potendo
comunque da li' osservare tutti i movimenti a valle. Si era rifugiato dove ci
trovavamo noi perché aveva appena scoperto che i paracos lo stavano cercando; curiosamente
chiedevano di lui pur non sapendo che faccia avesse. Sei uomini armati
piantonavano la sua capanna e difficilmente avevano intenzione di salutarlo per
fare due chiacchere amorevoli.
Avremmo dovuto mandarlo via, non essendo
membro della comunità ma semplicemente un suo lavoratore non eravamo tenuti a
proteggerlo, anzi, il fatto di ospitarlo in una casa della comunità metteva
tutti inevitabilmente nei guai. Ma la famiglia era la prima a avergli offerto
rifugio e di fatto quello era un morto che camminava al quale la nostra mera
presenza poteva essere d'aiuto per rubare qualche giorno alla vita. La mattina
seguente mi alzai e dovetti strizzare gli occhi per scacciare quel bagliore
accecante e scendere dall'amaca. Sebbene alle sei e mezza il sole fosse già
alto non era l'iridescenza del giorno bensì le mie domande su di lui che mi
impedivano di mettere a fuoco: “Cosa ne facciamo di lui?”.
Passarono due giorni e Carlo ci seguì avanti e
indietro tra l'avamposto a valle e quello in collina. A volte ci precedeva per
carpire informazioni dai passanti sugli spostamenti delle truppe: tutte
confermavano che spostarsi da lì sarebbe stato un suicidio perché i
paramilitari erano ovunque. Carlo sembrava uno di quei cani randagi che ogni
tanto si incontrano, ti seguono a distanza senza incrociare il tuo sguardo,
quasi capissero che se questo avvenisse si creerebbe inevitabilmente un legame
tra te e lui, e uno dei due sarebbe diventato consapevolmente responsabile per
l'altro.
Venne martedì e il giallo lascio momentaneamente
spazio ad altri due colori, uno dei quali in realtà aveva già iniziato a
marcare il foglio dei pensieri senza però evidentemente trovare uno spazio di
sfogo adeguato. Era il rosso resistenza, la cromatura che da che mondo e mondo
dà voce alla passione, all'impulsività sanguigna.
Erano circa le dieci del mattino ed eravamo
appena scesi a valle, Carlo era già lì che cercava di raccogliere informazioni.
Mi ero appena tolta gli stivali per dare un po' di respiro ai piedi
intrappolati nella plastica quando Dona A., la padrona della casa in collina ci
chiamò dal sentiero. “Correte vi prego ci sono i paramilitari e non so dove è
mia figlia”. E' lì che il rosso ha posteriori capisco aver trovato massimo
sfogo, perchè mentre gli altri toglievano la memoria dalla macchina fotografica
io ho incrociato lo sguardo di Carlo, il quale mi ha fatto la domanda più
essenziale e difficile che mi sia mai stata rivolta: “E io che cosa faccio”. La
capa che lo lo aveva sentito ha risposto prontamente: “Non possiamo essere responsabili
per te” ed ha iniziato a risalire il sentiero. Io abbassato lo sguardo per poi
rialzarlo un istante dopo: “Fermati qui, non ti muovere” gli ho detto a bassa
voce.
Abbiamo risalito il sentiero e ad un certo
punto ci siamo trovati davanti tre uomini armati di AK-47 e M-16. Ciascuno di
loro lo teneva ben saldo tra le mani, con la punta rivolta verso di noi. Dona
A. era ferma e parlava con uno di loro, in quel momento un manto retato verde
scuro è calato sui miei pensieri. Verde, perché è il colore della speranza che
è l'ultima a morire ed io in quel momento speravo solo che nessuno ci finisse
la sua vita in quell'istante. Scuro perché così è la tonalità di verde di
quella parte di selva ed i varchi tra le piante fanno filtrare la luce come li
maglie di una rete.
Tempo fa scrivevo che non avevo idea di come
ci si potesse sentire nell'incontrare un gruppo armato in mezzo alla giungla.
Ecco la risposta, che arriva inaspettata come sempre. Va che assumi una faccia
seria, ascolti come queste persone giustificano la loro presenza (in questo
caso stavano cercando le batterie di un cellulare che dei loro compagni avevano
portato a ricaricare il giorno prima). Continui ad osservarli discretamente
cercando una prova inconfutabile del fatto che siano AUC. Di base tieni la
testa impegnata per evitare di pensare a che cazzo di situazione stai vivendo
ma questo, almeno a me, non è risultato troppo difficile dal momento che al mio
fianco c'era una donna alla quale questa gente ha già ammazzato un figlio
quattordicenne e che senza perdere la calma ha detto: “Vi chiedo di parlare con
onestà, sapete che noi come comunità non prendiamo parte al conflitto armato e
quindi non elargiamo favori né ricarichiamo batterie. Vi parlo come madre, non
posso accettare di vedere tre uomini armati che entrano nel terreno della mia
casa dalla stessa direzione in cui mia figlia si è allontanata”. “Sua figlia è
in casa con sua suocera signora, non siamo venuti per ammazzare ma perché
abbiamo ricevuto un ordine”.
Quel martedì le parole di quella donna
coraggiosa sommate al nostro invito a lasciare rapidamente il terreno hanno
fatto sì che i soldati si allontanassero tornando da dove erano venuti, non
scendendo quindi il sentiero che portava all'altra caso, dove erano invece
diretti e dove c'era Carlo, fermo dove io gli avevo detto di restare. Prima di
andarsene però, i paramilitari hanno lanciato un avvertimento a noi e a Dona
A.: “Che la legge non sappia che noi siamo stati qui”.
I giorni si sono rincorsi, i colori hanno
continuato ad intersecarsi. Continuavo a chiedermi se mi fossi comportata
correttamente dicendo a Carlo di restare dov'era; se era stato giusto avviisare
le Nazioni Unite, le ambasciate e la Presidenza Colombiana dopo quella
intimidazione. Ho proseguito nel frenare la mia vena pasionaria e la rabbia che
mi aveva provocato vedere il terrore negli occhi di quella piccola grande donna
e che mi faceva dire che non era possibile che come internazionali non
potessimo fare di più, che i comunicati stampa dovevano essere più incisivi,
che le foto fatte dovevano uscire. Il verde paramilitare ha accompagnato il mio
onirico e quando on era così lo interrompeva con i suoi spari e le sue bombe.
Eppure
la luce di tanto in tanto filtrava, bianca, facendomi staccare e pensare che la
scusa del cellulare era degna di quelle di uno studente del liceo colto a fare
fuga dai suoi genitori. Pensavo che il più giovane dei paracos mi ricordava
l'assassino del “Pescatore” di De Andrè, con due occhi grandi da bambino,
due occhi grandi di paura che erano specchi di un'avventura. La luce era
filtrata l'ultimo giorno mentre il sole calava e scendeva baciando le sagome
degli alberi, gli internazionali che avevamo chiamato per darci il cambio erano
arrivati, Dona A. rideva assieme alla sua famiglia riunita sui ceppi di legna
per cenare, Carlo era scappato la mattina precedente ed era vivo perchè ci
aveva telefonato per avvisarci. Cercavo di tirare le somme e per un istante è
stato come quando in una galleria d'arte ti trovi a poter fare tre passi
indietro guardando un quadro senza inciampare in una comitiva guidata.
Ed eccola là la mia tela cognitiva, per un
attimo lo visualizzata, ho intuito che in quell'apparente confusione esisteva
una logica, la logica dei diversi livelli del mio inconscio. Ho analizzato i suoi
colri e li ho visti prendere forma, chiudersi in un cerchio mentre acquisivano
un senso. Solo qualche mese fa non avrei mai pensato che una come me avrebbe
potuto apprezzare un Pollock.