domenica 24 giugno 2012

Number 8


Sono piena di difetti ma se c'è una cosa che so fare è affrontare ciò che la vita mi mette davanti con lucidità di analisi e questo mi ha sempre consentito di reagire prontamente. Non significa non crollare, solo tenere la testa alta mentre lo si fa.
Questi giorni però no, ho perso la padronanza dei miei pensieri, la mia testa era come un dipinto di Pollock nel quale i getti di tempera si intersecavano, i livelli di ragionamento si sovrapponevano impedendomi di mantenere il filo.
Senza tregua le emozioni hanno guidato il pennello dei pensieri in maniera apparentemente sconnessa, tracciando schizzi dai colori differenti, ognuno appartenente ad uno stato d'animo, ad ua delle sfaccettature di me che normalmente agiscono distintamente.
Quando siamo partiti per questo accompagnamento ci avevano avvisato che avremmo potuto incontrare i paramilitari ma io non ci avevo fatto troppo caso. C'è gente che è qui da tre annoi e non li ha mai visti perché si ritirano quando i militari gli passano l'informazione che stiamo arrivando. Ma questa volta pare che l'ordine di avanzare, di prendere anche la parte di cordigliera al confine con quella sotto controllo FARC, sia arrivata proprio dall'esercito.
E così ce li siamo trovati davanti fin dal primo istante ed è stato lì, credo, che la mano invisibile che tiene il pennello dei pensieri ha iniziato a scattare, lasciando sul foglio le prime gettate di colore.
Il grigio ha accompagnato le prime ore, che in realtà per quanto infinite messe assieme hanno fatto un giorno. E'il colore dell'incertezza che mi ha colto quando ero sulla mula e stavamo entrando nella vereda, i miei compagni erano dietro di me a piedi, l'accompagnato davanti su un cavallo. Inizialmente non l'avevo neanche visto quell'uomo con la maglietta arancione in cima alla collina dalla cui ombra spuntava la sagoma di un fucile. Un minuto dopo era già a metà della discesa, correva verso di noi, arma alla mano, con altri tre uomini mezzi in divisa. Ci hanno raggiunto sulla piana e si sono fermati a osservare il nostro passaggio; avevo appena finito di dirmi che nel grigiume della prima volta avevo fatto bene a non rispondere al saluto, quando alzato lo sguardo ne ho visti altri quattro. Camminavano dandoci le spalle e andavano nella nostra stessa direzione: davanti a noi la cancha piena di gente perché si giocava la partita del venerdì. Mi ripassavo nella testa la lista di cose che dovevo fare o on fare in quella situazione se afferrare le informazioni che mi autofornivo. Ho lasciato che il color fumo prendesse il sopravvento mentre chi aveva più esperienza di me gestiva la situazione; la testa sapeva dove voleva andare ma c'era troppa nebbia per intravedere la direzione.
Ne ho visti almeno 50 di paramilitari in questi giorni, hanno attraversato la vallata una volta in una direzione una volta in un'altra; sono passati in gruppi più o meno piccoli; a volte in abiti civili, a volte con uniformi, altre incappucciati, si sono susseguiti dandosi il cambio, così come si sono susseguite le domande che mi ponevo e il giallo di cui erano tinte.
Giallo, come il colore di quei libri o quei libri di cui fino alla fine non si può dire con certezza di aver capito il senso. La macchia più grande appartiene a lui, Carlo come abbiamo deciso di chiamarlo per non farci intercettare. Era arrivato la seconda sera nella casa in cima ad una collina dove ci ritiravamo quando la notte calava potendo comunque da li' osservare tutti i movimenti a valle. Si era rifugiato dove ci trovavamo noi perché aveva appena scoperto che i paracos lo stavano cercando; curiosamente chiedevano di lui pur non sapendo che faccia avesse. Sei uomini armati piantonavano la sua capanna e difficilmente avevano intenzione di salutarlo per fare due chiacchere amorevoli.
Avremmo dovuto mandarlo via, non essendo membro della comunità ma semplicemente un suo lavoratore non eravamo tenuti a proteggerlo, anzi, il fatto di ospitarlo in una casa della comunità metteva tutti inevitabilmente nei guai. Ma la famiglia era la prima a avergli offerto rifugio e di fatto quello era un morto che camminava al quale la nostra mera presenza poteva essere d'aiuto per rubare qualche giorno alla vita. La mattina seguente mi alzai e dovetti strizzare gli occhi per scacciare quel bagliore accecante e scendere dall'amaca. Sebbene alle sei e mezza il sole fosse già alto non era l'iridescenza del giorno bensì le mie domande su di lui che mi impedivano di mettere a fuoco: “Cosa ne facciamo di lui?”.
Passarono due giorni e Carlo ci seguì avanti e indietro tra l'avamposto a valle e quello in collina. A volte ci precedeva per carpire informazioni dai passanti sugli spostamenti delle truppe: tutte confermavano che spostarsi da lì sarebbe stato un suicidio perché i paramilitari erano ovunque. Carlo sembrava uno di quei cani randagi che ogni tanto si incontrano, ti seguono a distanza senza incrociare il tuo sguardo, quasi capissero che se questo avvenisse si creerebbe inevitabilmente un legame tra te e lui, e uno dei due sarebbe diventato consapevolmente responsabile per l'altro.
Venne martedì e il giallo lascio momentaneamente spazio ad altri due colori, uno dei quali in realtà aveva già iniziato a marcare il foglio dei pensieri senza però evidentemente trovare uno spazio di sfogo adeguato. Era il rosso resistenza, la cromatura che da che mondo e mondo dà voce alla passione, all'impulsività sanguigna.
Erano circa le dieci del mattino ed eravamo appena scesi a valle, Carlo era già lì che cercava di raccogliere informazioni. Mi ero appena tolta gli stivali per dare un po' di respiro ai piedi intrappolati nella plastica quando Dona A., la padrona della casa in collina ci chiamò dal sentiero. “Correte vi prego ci sono i paramilitari e non so dove è mia figlia”. E' lì che il rosso ha posteriori capisco aver trovato massimo sfogo, perchè mentre gli altri toglievano la memoria dalla macchina fotografica io ho incrociato lo sguardo di Carlo, il quale mi ha fatto la domanda più essenziale e difficile che mi sia mai stata rivolta: “E io che cosa faccio”. La capa che lo lo aveva sentito ha risposto prontamente: “Non possiamo essere responsabili per te” ed ha iniziato a risalire il sentiero. Io abbassato lo sguardo per poi rialzarlo un istante dopo: “Fermati qui, non ti muovere” gli ho detto a bassa voce.
Abbiamo risalito il sentiero e ad un certo punto ci siamo trovati davanti tre uomini armati di AK-47 e M-16. Ciascuno di loro lo teneva ben saldo tra le mani, con la punta rivolta verso di noi. Dona A. era ferma e parlava con uno di loro, in quel momento un manto retato verde scuro è calato sui miei pensieri. Verde, perché è il colore della speranza che è l'ultima a morire ed io in quel momento speravo solo che nessuno ci finisse la sua vita in quell'istante. Scuro perché così è la tonalità di verde di quella parte di selva ed i varchi tra le piante fanno filtrare la luce come li maglie di una rete.
Tempo fa scrivevo che non avevo idea di come ci si potesse sentire nell'incontrare un gruppo armato in mezzo alla giungla. Ecco la risposta, che arriva inaspettata come sempre. Va che assumi una faccia seria, ascolti come queste persone giustificano la loro presenza (in questo caso stavano cercando le batterie di un cellulare che dei loro compagni avevano portato a ricaricare il giorno prima). Continui ad osservarli discretamente cercando una prova inconfutabile del fatto che siano AUC. Di base tieni la testa impegnata per evitare di pensare a che cazzo di situazione stai vivendo ma questo, almeno a me, non è risultato troppo difficile dal momento che al mio fianco c'era una donna alla quale questa gente ha già ammazzato un figlio quattordicenne e che senza perdere la calma ha detto: “Vi chiedo di parlare con onestà, sapete che noi come comunità non prendiamo parte al conflitto armato e quindi non elargiamo favori né ricarichiamo batterie. Vi parlo come madre, non posso accettare di vedere tre uomini armati che entrano nel terreno della mia casa dalla stessa direzione in cui mia figlia si è allontanata”. “Sua figlia è in casa con sua suocera signora, non siamo venuti per ammazzare ma perché abbiamo ricevuto un ordine”.
Quel martedì le parole di quella donna coraggiosa sommate al nostro invito a lasciare rapidamente il terreno hanno fatto sì che i soldati si allontanassero tornando da dove erano venuti, non scendendo quindi il sentiero che portava all'altra caso, dove erano invece diretti e dove c'era Carlo, fermo dove io gli avevo detto di restare. Prima di andarsene però, i paramilitari hanno lanciato un avvertimento a noi e a Dona A.: “Che la legge non sappia che noi siamo stati qui”.
I giorni si sono rincorsi, i colori hanno continuato ad intersecarsi. Continuavo a chiedermi se mi fossi comportata correttamente dicendo a Carlo di restare dov'era; se era stato giusto avviisare le Nazioni Unite, le ambasciate e la Presidenza Colombiana dopo quella intimidazione. Ho proseguito nel frenare la mia vena pasionaria e la rabbia che mi aveva provocato vedere il terrore negli occhi di quella piccola grande donna e che mi faceva dire che non era possibile che come internazionali non potessimo fare di più, che i comunicati stampa dovevano essere più incisivi, che le foto fatte dovevano uscire. Il verde paramilitare ha accompagnato il mio onirico e quando on era così lo interrompeva con i suoi spari e le sue bombe.
 Eppure la luce di tanto in tanto filtrava, bianca, facendomi staccare e pensare che la scusa del cellulare era degna di quelle di uno studente del liceo colto a fare fuga dai suoi genitori. Pensavo che il più giovane dei paracos mi ricordava l'assassino del “Pescatore” di De Andrè, con due occhi grandi da bambino, due occhi grandi di paura che erano specchi di un'avventura. La luce era filtrata l'ultimo giorno mentre il sole calava e scendeva baciando le sagome degli alberi, gli internazionali che avevamo chiamato per darci il cambio erano arrivati, Dona A. rideva assieme alla sua famiglia riunita sui ceppi di legna per cenare, Carlo era scappato la mattina precedente ed era vivo perchè ci aveva telefonato per avvisarci. Cercavo di tirare le somme e per un istante è stato come quando in una galleria d'arte ti trovi a poter fare tre passi indietro guardando un quadro senza inciampare in una comitiva guidata.
Ed eccola là la mia tela cognitiva, per un attimo lo visualizzata, ho intuito che in quell'apparente confusione esisteva una logica, la logica dei diversi livelli del mio inconscio. Ho analizzato i suoi colri e li ho visti prendere forma, chiudersi in un cerchio mentre acquisivano un senso. Solo qualche mese fa non avrei mai pensato che una come me avrebbe potuto apprezzare un Pollock.

martedì 12 giugno 2012

Hip Hip Urra'


Nella regione nord occidentale di Cordoba, 30 kilometri a sud del municipio di Tierralta, può capitare d'imbattersi in una distesa d'acqua vastissima, un lago del quale si fatica a riconoscere i confini a che di primo acchito lascia senza fiato. Come tante altre cose al mondo, la represa di Urra' è una di quelle realtà che dietro ad un aspetto accattivante ed affascinante celano vicende ben piu' torbide e che possono fornire dei tristi esempi di come la costruzione di imponenti infrastrutture può tradursi in imbarazzanti, quanto irreparabili casi di sfruttamento delle risorse naturali e di devastazione del territorio.
Le opere della centrale idroelettrica di Urrà sono iniziate nel 1993 ma già dal 1949 il Governo Nazionale aveva identificato nella conca del Sinu il luogo ideale per  poter sviluppare il progetto grazie al potenziale energetico del fiume. Il Rio Sinu è uno di fiumi più importanti della Colombia e nasce nel Parco Nazionale Naturale del Parmillo, considerato dall'Istituto Nazionale per le Risorse Naturali (INDERENA) che lo creo nel 1977 un ecosistema strategico per la regolazione climatica  e il ricircolo d'acqua dolce. Dalla sua fonte il Sinu scorre per 350 kilometri fino alla sua foce nel mar Caribe, attraversando territori tradizionalmente abitati da comunità campesine ed indigene, e che nei secoli è funta da rifugio per schiavi e popolazioni perseguitate. In particolare nella conca del Sinu vivono le comunità indigene Embera Katiò, ovvero 4256 distribuite in 24 villaggi regolamentati da autorità locali che riflettono l'ubicazione territoriale o i nuclei familiari allargati. Queste popolazioni praticano un'economia di sussistenza che poco lascia ad una commercializzazione esterna.
Per costruire la represa, nel 1999 sono stati inondati 7417 ettari di terra, tutti appartenenti al Parco Naturale e alla Riserva Embera Katio creata curiosamente solo un anno prima dalla Corte Costituzionale. A poco sono serviti nel corso degli anni novanta i numerosi avvisi delle comunità indigene che denunciavano i rischi ambientali e socio-economici ai quali l'inondazione della conca li avrebbe messi in contro: i lavori di costruzione della represa proseguirono incessanti nonostante, e grazie, i molteplici passaggi d'incarico e rimbalzo di responsabilità tra autorità statali ed imprese private.
La vicenda della represa di Urra' infatti, si è susseguita in maniera tutt'altro che regolare. Nel 1979 Interconexion Electrica S.A assunse l'incarico per il “Progetto Idroelettrico di Urrà” salvo cederlo nel 1982 alla Corporacion Electrica de la Costa Atlantica (CORALECA). Nel 1985 CORALECA iniziò i preparativi per la costruzione della represa ed il Governo Colombiano nel 1990, dopo aver dichiarato la conca del Sinu territorio d'interesse pubblico e sociale, approvò il progetto multiproposito Urrà e costituì la impresa URRA S.A, la quale avviò le pratiche per ottenere la licenza ambientale da INDERENA,  che gliela concesse 3 anni dopo nel 1993.
Parallelamente all'aiuto per accelerare la trafila burocratica per la costruzione della  centrale, il Governo Colombiano paradossalmente si mosse anche in direzione delle comunità indigene. Attraverso la Costituzione Politica del 1991 infatti, lo stato riconobbe i diritti degli indigeni alla auto determinazione e all'autogoverno del territorio. In aggiunta, dallo stesso anno lo stato  lo stato si obbligò a consultare preventivamente i gruppi etnici locali ogni qualvolta che le misure che intraprese dallo stesso vanno ad influenzare direttamente le comunità. Il caso ha voluto che questa obbligazione venisse sancita un anno dopo il consenso per il progetto di Urrà e che durante quegli stessi anni in nessuno degli studi effettuati per la costruzione venisse menzionata la presenza delle popolazioni indigene e campesine in quella zona. Kimy Pernia Dorucò, leader embera katiò ucciso nel 2007 dalle AUC per ammissione di Salvatore Mancuso (uno dei più importanti capi paramilitari demovilizados), dichiarava a scanso di ogni dubbio che in quegli anni gli addetti ai lavori passavano i loro territori per fotografare l'area senza fermarsi ed interpellare la popolazione locale.
Successivamente alla mobilitazione dei leader indigeni nel 1994 l'Organizzazione Nazionale Indigena di Colombia (ONIC) conseguì la firma di un accordo con l'impresa URRA S.A per la seconda fase del progetto. Tale accordo impegnava l'azienda a consultare prima di ogni operazione le autorità indigene da lei designate e a compensare l'impatto della centrale con il piano che venne denominato Plan de Etnodesarollo. Tra i punti dell'accordo, delineati in maniera definitiva nel 1996, comparivano il finanziamento del Plan fino al 2000 e il miglioramento dei trasporti ittici nella zona. Tuttavia, la mancata efficacia della rappresentanza indigenza designata dall'azienda portò URRA S.A ad interrompere l'accordo solo un anno dopo, nel 1997. Questa decisione venne appellata alla Repubblica nel 1998 e la Corte Costituzionale nel novembre dello stesso anno dichiarò irregolare il processo di ottenimento della licenza ambientale da parte di URRA' S.A per via dell'assenza di consultazioni con la popolazione locale. Nel medesimo contesto, la Corte dichiarò irreversibili i danni causati alla comunità indigena e l'obbligo per l'impresa di indennizzare la popolazione in maniera da garantire la sua sopravvivenza nel lungo periodo.
Nonostante la sentenza della Corte, nel 1999 la conca del Sinu venne inondata e l'anno successivo la represa venne messa in funzione. Ad oggi, passati 12 anni, è possibile affermare che la creazione della centrale ha portato: alla salatura dell'estuario del Sinu; all'abbassamento del livello dell'acqua del fiume; alla scomparsa di diverse specie di pesci il cui ciclo riproduttivo dipendeva dalla loro libera risalita del rio. L'inondazione ha significato la deforestazione di tutta l'area della represa e l'aumento di malattie dovute all'acqua stagnante. Non di meno, i mutamenti nell'alimentazione della popolazione locale non sono stati compensati dalla libera fruizione di altri beni alimentari in quanto la via d'accesso alla represa per le merci provenienti da Tierralta è il porto del Frasquillo, sotto totale controllo militare.
Se mai esistesse una giustificazione plausibile a tutto ciò la si potrebbe riscontrare nel motivo per il quale questa represa è stata costruita: la produzione di energia elettrica. Eppure la centrale di Urrà produce solo il 3% dell'energia colombiana (340 MW contro i 9800 del totale nazionale) e ironicamente indigeni e campesinos continuano a cenare ogni sera a lume di candela.


E mori' con un bananito in mano: atto secondo


Lo scorso Marzo la Fiscalia Colombiana, più precisamente il fiscale 33 specializzato di Medellin, Humberto Villamizar, ha deciso di archiviare l'inchiesta contro Chiquita Brand, Banadex e Banacol sostenendo che gli 1,7 millioni di dollari versati da queste imprese alle AUC (gruppi paramilitari di autodefensas campesinas)  tra il 1997 e il 2004 vennero elargiti “all'interno di un contesto di buona fede e confidenza, generato dal supporto statale che questo tipo di organizzazioni di sicurezza avevano all'interno del paese”.
L'inchiesta archiviata è la sola “sopravvissuta” delle svariate indagini aperte nel 2007 dopo che alla Fiscalia erano giunte diverse denunce sui finanziamenti delle imprese bananere alle AUC. I suddetti finanziamenti sono stati largamente confermati da alcune dichiarazioni di paramilitari demovilizados come Freddy Rendón Herrera, Carlos Castaño, Salvatore Mancuso e, sopra tutti Raúl Hazbún, alias Pedro Bonito; ciò nonostante, tali testimonianze sono state totalmente ignorate dal fiscale di Medellin. 
Inutile dire che la decisione della Fiscalia ha riscosso uno discreto stupore in parte dell'opinione pubblica colombiana per più di una ragione.

Un primo motivo di perplessità è da riscontrare nel fatto che il 19 Marzo 2007 i rappresentanti di Chiquita Brand si sono dichiarati colpevoli di “essere stati coinvolti in transizioni con terroristi globali” davanti al Tribunale della Columbia negli Stati Uniti. In particolare, uno degli stessi allora rappresentanti della multinazionale, Fernando Aguirre, dichiarò che “i pagamenti effettuati (alle AUC) dalla compagnia furono sempre motivati dalla nostra preoccupazione per la sicurezza dei nostri impiegati”.
Il Dipartimento di Giustizia Statunitense, in senno a quel processo, provo' che i pagamenti di Chiquita alle organizzazioni paramilitari furono “controllati e approvati dagli alti esecutivi della corporazione, inclusi officiali, direttori e impiegati di alto rango” i quali, al più tardi nel settembre del 2000, furono informati del fatto che “l'impresa effettuava versamenti alle AUC e che le AUC erano un'organizzazione paramilitare violenta diretta da Carlos Castaño”, confermando che l'impresa aveva intrattenuto vincoli con i gruppi paramilitari che operavano nella regione di Urabà.
L'esito di questa inchiesta fu una condanna per finanziamenti a gruppi terroristici internazionali e si risolse con il patteggiamento di Chiquita Brand, la quale si rese disponibile al pagamento di 25 milioni di dollari al Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, alla consegna di documenti interni della compagnia e all'ammissione di colpevolezza in cambio della rinuncia al perseguimento penale dei propri dirigenti.
La recente pubblicazione dei documenti interni da parte dell'Archivio di Sicurezza Statunitense ha inoltre permesso di chiarire come degli 1,7 milioni di dollari versati da Chiquita ai paramilitari tra il 1997 e 2004, una cospicua parte fosse veicolata alla “sicurezza attiva”, ovvero al pattugliamento e alla protezione delle coltivazioni e dei lavoratori della compagnia. Alla luce delle dichiarazioni del tribunale statunitense, degli stessi amministratori Chiquita e della pubblicazione dei documenti, la motivazione dell'archiviazione adotta dal fiscale di Medellin e relativa alla buona fede dei pagamenti alle AUC risulta quindi quantomeno contraddittoria .

Un'altra ragione per la quale la chiusura del caso è stata accolta con stupore da parte dell'opinione pubblica colombiana è da individuarsi nella totale assenza di peso data alle dichiarazioni di Raul Hazbun, alias Pedro Bonito, già condannato per associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico e mandante comprovato del massacro di San Josè de Apartadò per il quale sta scontando una pena di 18 anni.
Pedro Bonito è un ex imprenditore bananero e ex capo paramilitare del famoso Bolque di  Carlos Castaño. Nel 2004, nell'ambito della presunta demobilizzazione delle AUC, Hazbun è uscito dalle fila del gruppo paramilitare ed ha iniziato a collaborare con la Giustizia colombiana. Durante i numerosi interrogatori l'ex capo paramilitare ha spiegato come si sia adoperato come anello di congiunzione tra i sindacati bananeri e i gruppi paramilitari nella regione di Urabà sfruttando le sue conoscenze imprenditoriali. In particolare ha chiarito il ruolo fondamentale svolto dalla Convivir Papagayo per coprire i pagamenti degli impresari bananieri alle AUC, consentendo di fatto di fare luce per la prima volta su quel fenomeno che i colombiani chiamano “paraempresaismo” e inteso come il supporto economico dato da grandi compagnie o imprenditori ai gruppi paramilitari a partire da metà degli anni '90.
Con riferimento a Chiquita, Pedro Bonito ha ricordato in più occasioni (da ultima la sua prima intervista in assoluto rilasciata alla rivista Semana in seguito alla sentenza d'archiviazione) l'incontro avvenuto nel 1997 tra Carlos Castano, Charles Caiser, amministratore di Banadex (filiale di Chiquita Brands), Reynaldo Escobar e Irwin Bernal, anch'essi dirigenti dell'impresa. In tale occasione venne pattuito che l'azienda versasse ai paramilitari attraverso la Convivir 3 centesimi di dollaro per ogni cassa di banane esportata. Fu conseguentemente all'emergere di tale accordo che è stato possibile stabilire che fino al 2004 Chiquita, tramite Bandex, ha versato alle AUC 1,7 milioni di dollari convertendosi nel loro principale finanziatore. L'ex paramilitare dichiara che sommando i  ricavi dell'accordo con la multinazionale alle tangenti percepite da allevatori e commercianti nella sola zona di Urabà, il suo guadagno personale annuo era di circa 3 milioni di euro.

Banadex non e' la sola impresa che Chiquita Brand ha utilizzato come prestanome per i pagamenti alle Convevir. Tale fatto è di rilevanza non indifferente in quanto è stata proprio la stessa Fiscalia colombiana che oggi dichiara l'estraneità ai fatti della multinazionale ad accertarlo.
Dopo la condanna del 2004, Chiquita dichiarò concluse le sue operazioni economiche nel paese; le sue attività furono rilevate da due imprese: Invesmar S.A e Olinsa. La prima, domiciliata in un paradiso fiscale, è a capo di un conglomerato che ha come firma leader la ben più famosa Banacol S.A.; quest'utlima, sempre secondo la Fiscalia, tra il 2004 e il 2007 ha versato alla convivir Papagayo circa 3.000 milioni di $. Olinsa diversamente è un'impresa creata ex novo nel 2005 da un'ex impiegata di confidenza di Chiquita Brand. Appena fondata, Olinsa ricevette dalla multinazionale statunitense un versamento di 1.152 milioni di $; curiosamente, per il suddetto prestito, venne fissato un tasso d'interesse irrisorio al 9% e tra il 2005 e il 2008 Chiquita fu il principale cliente di Olinsa con un apporto di 5 milioni di $.
Per quanto il fatto che i documenti interni di Chiquita siano stati resi pubblici solo recentemente e che la tracciabilità di alcune operazioni finanziarie sia stata ostacolata dall'utilizzo di ulteriori prestanome o paradisi fiscali, la Fiscalia attraverso queste indagini ha dimostrato come non si può avere certezza del fatto che le imprese che hanno rilevato gli affari di Chiquita nel 2004 non abbiano attuato le stesse pratiche messe in atto dalla multinazionale[1]

A riprova della difficoltà a credere nella bontà d'intenti dell'azienda è bene citare inoltre che il 7 novembre 2001 l'impresa Banadex (secondo quanto dichiarato da Pedro Bonito e confermato da un'indagine del Segretariato Generale della OEA) ha scaricato e immagazzinato per quattro giorni 3400 fucili AK-47 e quattro milioni di cartucce inviate dal Nicaragua alle AUC. Tale traffico d'armi è stato menzionato da Castano come il “migliore gol” della sua vita, e fu reso possibile perchè la Bandex aveva creato il suo avamposto di carico-scarico merci in una zona vicino a Turbo grazie ad una concessione terriera della Convevir DIAN, e testimoniata da un pagamento effettuato a quest'ultima dallo stesso Escobar presente nel 1997 all'incontro con Castano per l'accordo sui tre centesimi a cassa.
I dati relativi alle conseguenze dell'afflusso d'armi ai gruppi paramilitari nella regione di Uraba' sono a dir poco sconcertanti. Tra il 1997 e il 2004, epoca in cui Chiquita e le sue filiali finanziarono direttamente le AUC, sono morte 3.778 persone, in maggioranza campesinos coinvolti nella coltivazione di banane e che paradossalmente la multinazionale dichiarava di voler difendere. In quegli anni, secondo il Programma Presidenziale dei Diritti Umani, vennero compiuti 62 massacri di civili, tra questi anche quelli tristemente più conosciuti di Mutatà e San José de Apartado. Non da ultimo, un altro fenomeno conseguenza delle azioni paramilitari in Antioquia è quello dei desplazados, con un numero che si aggira attorno ai 60.000 per il periodo di riferimento e che ha fatto balzare nel 2001 il municipio di Apartadò al primo posto in Colombia per numero di sfollati.
Mentre la decisione della Fiscalia veniva celebrata dalla multinazionale americana attraverso un comunicato ufficiale nel quale dichiarava che “Chiquita ha preso atto nei giorni passati che un fiscale colombiano ha chiuso un'inchiesta che è durato più di quattro anni, riconoscendo varie evidenze del fatto che Chiquita si vide forzata a cedere alle estorsioni da parte delle AUC. Questa decisione coincide con il risultato di ulteriori inchieste avanzate da diverse autorità e nelle quali la compagnia si è pronunciata con lo stesso principio: fu vittima delle estorsioni di un gruppo armato illegale”, parte della stampa colombiana ha palesato contrariamente quanto la medesima decisione sia da riscontrare come una sconfitta per la giustizia del paese. Questo non solo perchè l'inchiesta rappresentava l'opportunità per dare un segnale esemplare alle imprese che hanno abusato della Colombia e sfruttato il suo territorio per finalità economiche, ma soprattutto perchè tale azione era stata intrapresa sulla base di crimini di lesa umanità, come i massacri effettuati dai paramilitari.

Tuttavia, forse non tutte le strade affinché
 le vittime e i loro famigliari vedano riconosciuti e parzialmente risarciti i danni subiti sono ad oggi precluse. Infatti mentre in Colombia la decisione della Fiscalia è stata appellata alla Corte di Giustizia da alcune ONG  e, paradossalmente, dallo stesso Raul Hazbun, negli Stati Uniti sono attualmente in corso due battaglie per evitare che il caso Chiquita si risolva nell'irrisoria multa di 25 milioni di $ versati, tra le altre cose, allo Stato americano.
Come sottolineato da Paul Wolf, avvocato per i diritti umani statunitense pioniere di una delle due cause contro Chiquita Brand, la multinazionale avendo già ammesso una volta la sua colpevolezza nella causa del 2004, ha lasciato aperta la possibilità alle migliaia di vittime dei gruppi paramilitari, colpite negli anni in cui questi risultavano in busta paga dell'azienda, per intentare delle cause civili.
L'avvocato Wolf, supportato dal giudice Kenneth Marra, sta cercando da 4 anni di mettere assieme le prove per dimostrare che gli omicidi che avvennero nella regione di Urabà per mano paramilitare costituiscono violazioni al Diritto Internazionale Umanitario e sono di fatto catalogabili come crimini di guerra. Per riuscire in tale impresa però, oltre alle testimonianze dirette delle vittime è necessario dimostrare che parte degli accordi per i pagamenti alle Convevir, quando non direttamente le transizioni monetarie, avvennero in territorio nordamericano. In aggiunta, come precisato dal giudice Marra, la mera prova del supporto di Chiquita alle AUC non è sufficiente: pur non dovendo arrivare a provare che la multinazionale volesse intenzionalmente che le AUC torturassero e uccidessero i civili, per ottenere un successo nella causa bisogna quantomeno dimostrare che l'azienda era consapevole dei crimini messi in atto dai gruppi paramilitari nelle zone in cui questa possedeva le piantagioni.
La seconda causa attualmente in corso negli Stati Uniti è più mirata al risarcimento delle vittime e dei loro famigliari. Avanzata nell'aprile del 2010 davanti ad un giudice federale della Florida, la domanda di accusa per concorso in tortura, lesa umanità e crimini di guerra, avanzata da 251 abitanti della regione di Antioquia, rappresenta attualmente la più imponente azione legale intrapresa contro la multinazionale. La richiesta di risarcimento attualmente verte sui 1000 milioni di $, cifra che potrebbe arrivare a quintuplicarsi se, come prevede la legge statunitense, gli altri mille colombiani che hanno fatto richiesta potessero costituirsi parte civile.
Le vittime sono seguite da un rappresentante legale colombiano, Heli' Abel Torrado, che negli ultimi dieci anni ha raccolto minuziosamente le testimonianze delle vittime, fatte di descrizioni dettagliate degli abusi subiti come l'incendio di case e proprietà, le mutilazioni, gli stupri di gruppo, le aggressioni e uccisioni con l'acido; torture che lo stesso Torrado definisce come qualcosa al di la' dell'immaginazione umana. L'istanza di queste vittime è seguita negli U.S da un avvocato statunitense, Lee Wolosky, il quale ha dichiarato: “Chiquita ha già ammesso di aver tenuto una condotta criminosa che violava la legge federale foraggiando gruppi terroristici stranieri, tuttavia ha negato una ricompensa economica a coloro che hanno subito le torture perpetrate da tali gruppi: su questa contraddizione noi ci batteremo”.

Non resta dunque che sperare che almeno nel casi portati davanti alle corti statunitensi il corso della giustizia segua quello della logica e della coerenza; compensando, seppure solo materialmente, le perdite subite dalla popolazione anitioquena.



[1]    Nel 2008 la Fiscalia ha segnalato che le imprese di Invesmar S.A che hanno supportato le AUC sono: El Convite S. A., Río Cedro S. A., Centurión S. A., Agrícola El Carmen S. A., Banagrícola S. A., Agrícola El Retiro S. A. y exportadora de Banano Expoban S. A.

giovedì 7 giugno 2012

MEMENTO


GIORNO 7

Quando ero piccola, alta poco più di mezzo metro, adoravo scavalcare la rete del giardino di casa e lanciarmi in avventure immaginarie nella boscaglia circostante. Mi piaceva essere avvolta dalle foglie, infilarmi tra i rami fitti e taglienti dei cespugli, sentire l'odore delle stagioni che si susseguivano.
Ora avevo in mente quello di primavera mentre W. Si faceva strada affettando con il machete le piante di granoturco alte più di due metri, lasciandosi alle spalle un profumo di linfa che m'inondava le narici. Risalivamo gli immensi campi di mais e riso, e ,nel mentre che mi indicava i confini della finca, mi facevo raccontare della cecità di suo prozio J.
J. era il fratello di suo nonno, un uomo estremamente elegante nonostante la mancanza della vista lo facesse arrancare sui terreni irregolari del suo villaggio. L'avevo conosciuto il terzo giorno durante una visita ad una vereda dall'altra parte della represa; delle famiglie avevano chiesto un incontro con alcuni membri del Consiglio della comunità perchè erano interessati a prenderne parte.
Fin dal primo momento che abbiamo parlato J. mi ha dato l'impressione di essere davvero stupito della nostra presenza in quel posto. A tratti era quasi imbarazzante l'onore che mostrava nell'avere ospiti stranieri. Per questa lusinghiera accoglienza, mentre il resto della delegazione si faceva mostrare da suo figlio i campi di cacao, io ho preferito rimanere con lui, che mi chiedeva dell'Italia, del tempo e del cibo.
“Mi hanno detto che gli spagnoli come piatto speciale ne hanno uno a base di riso, la “paella”, curioso dato che noi non mangiamo altro; speravo che la colonizzazione fosse servita almeno a qualcosa”, sono tuttora convinta che se avesse potuto avrebbe strizzato l'occhio per accompagnare questa battuta. Poi incalzò: “ E quindi hai fatto studi politici...Che mi dici della Colombia?”. Con il mio spagnolo cercavo di fare le mie idee, di per sé ingarbugliate, il più chiare possibile: “E' un paese stupendo, non credo di aver mai visto un terra così viva, così ricca di vegetazione e fertile. Pero' per quel poco che ho visto da quando sono qui, posso dire che politicamente mi sembra un casino. Tutto è una contraddizione. Anche questa cosa che ho detto: c'è tanta terra, nella maggior parte fertile; eppure proprio per il controllo della terra è in corso un massacro, e la gente in città muore di fame...”. J. fissò il vuoto facendo roteare delicatamente il bastone tra le sue dita di campo: “Dici bene. Qui si pensa di poter affrontare e resistere alla mattanza senza includere la politica, si ha paura di parlare di politica per via di quello che successo con le FARC. Ma la politica è l'arte di fare funzionare le cose e noi qui, come dici tu, abbiamo un casino. Quindi abbiamo bisogno di una politica”.
Ho amato la semplicità della logica del suo discorso. E' la stessa che rividi dopo qualche ora, quando suo figlio fece alcune domande mirate ai membri del Consiglio per sapere che garanzie avrebbe avuto come coltivatore di cacao se avesse preso parte al progetto. Ogni volta che loro si perdevano in dietrologie e propaganda, lui li ascoltava, sorrideva, e con la stessa posatezza del padre riportava il discorso al senso della domanda iniziale. Anche lui era un uomo saggio e colto; aveva affascinato tutti con i suoi racconti sulla sua esperienza di lavoro nelle comunità di indigeni, sui suoi esperimenti di innesto botanici, sulla sua passione per la scultura, testimoniata da una statua della Pacha Mama alta 20 centimetri e ricavata da un ceppo della sua finca.
Erano persone che mi avevano colpito in maniera particolare ed è per questo che ora che avevo scoperto che erano parenti di W. e di suo padre M. provavo una sensazione di conforto, come la rarissima conferma che buono chiama buono, che positivo riflette positivo. E questo sollievo mi accompagnava mentre risalivo i campi di mais e di riso, con l'olfatto pieno di linfa per un secondo identico a quello che sentivo da bambina.
La proprietà della famiglia di W. Era enorme: 150 ettari che si spalmavano sulle arricciature delle alture della represa. L'orgoglio di W. ti si rifletteva negli occhi mentre ti spiegava questa o quella pianta, le tecniche apprese in Portogallo da una comunità sostenibile per creare allevamenti di pesci sfruttando le falde acquifere. W. era una persona allegra e travolgente nel raccontare le cose; per questo anche se non ne capisco nulla seguivo minuziosamente ogni sua parola.
Nei tre giorni passati con lui e la sua famiglia ho visto il sorriso scomparirgli dal volto solo in due momenti e uno di questi fu quando finalmente arrivammo sul filo della risaia. Lì mi racconto di quando nel 2002 gli attacchi paramilitari portarono lui e la sua famiglia a desplazarsi. Tutte le coltivazioni andarono distrutte, 30 anni di lavoro di suo padre, e prima ancora di suo nonno, vennero buttati al vento, fortunatamente non al fuoco, sorte che invece toccò alla loro casa. Quando tornarono dopo sei anni, nel 2008, dovettero ricominciare tutto da zero. M., assieme a tre dei suoi figli (W., H. e C.) furono i soli a fare ritorno. Gli altri membri della famiglia preferirono fermarsi nella città di Medellin. Si intuiva dai suoi occhi mentre il figlio raccontava che questa scelta non era  facile da accettare per M.: non riusciva a spiegarsi come potessero, con tutta questa terra a disposizione, preferire di rimanere in città a fare la fame.
Credo che una giustificazione a questa scelta io l'avessi già carpita, ed era direttamente riconducibile alla prima volta nella quale il sorriso di W. lasciò spazio ad un espressione seria.

GIORNO 6
Eravamo a P.N, in casa di C. che aveva una piccola proprietà in un'insenatura della represa. Ci aveva ospitato per una notte pirma che risalissimo il monte verso casa di W.
C. era stato per anni un coltivatore di coca. Un uomo di sostanza, come diremmo noi, con una pancia gigante e dei pantaloni sempre leggermente calati sul di dietro, che lasciavano intravedere la peluria e il sudore delle natiche nero carbone. Dopo anni di coltivazione illecita, la morte del padre (anche lui cocalero e ammazzato da non si sa quale fazione), lo aveva spinto ad abbandonare. Lasciare un mercato del genere non è facile: il capo della guerriglia di zona si presento' personalmente per chiedere spiegazioni e C. dovette chiarire la sua posizione, spiegare che voleva semplicemente tornare a coltivare frutta e verdura, che non aveva intenzione di cambiare bandiera, né tanto meno di fornire informazioni all'altra parte; stesso chiarimento dovette affrontare con i paramilitari, ai quali per anni aveva versato una tangente per poter vendere alle FARC (altra contraddizione che un paese come la Colombia ti riserva).
Nonostante i suoi precedenti, C. non riusciva a starmi antipatico né a stimolarmi diffidenza. Lo vedevo umano nei suoi errori palesati, nella sua pancia gonfia e pelosa. Lo avevo sentito intimamente vicino al mio vissuto quando involontariamente l'ho visto nella zona cucina far scivolare  una mano nell'interno coscia di sua moglie e afferrarle il seno con quell'altra, sbirciarli in un sorriso compice quanto fugace, subito arrestato da lei per paura che si bruciassero i fagioli. E poi non avrei potuto mai voler male ad un uomo che mi aveva regalato un momento fiabesco quando la sera precedente si era allontanato con la compagna per recuperare una canoa prestata alla famiglia di Don H.
La notte era calata da una mezzora ed i tuoni si infrangevano sulla cornice dei monti, accesa dalla luce dei lampi sull'acqua. Willy, il figlio di 6 anni di C., inizava ad agitarsi non vedendo rincasare i genitori, e per quanto i nostri sforzi di distrarlo giocando a Merda con le carte fossero più che lodevoli, lo sguardo del bambino continuava a scavalcarci, puntando la baia oscurata. Passò ancora una mezzora e poi nel buio riecheggiò la voce di C.: “Willy, papi est acà”. E prima ancora che l'eco si perdesse nella represa, la paura era scomparsa dal suo volto. Non so perchè. Ma il fatto che quell'uomo sapesse perfettamente che suo figlio era in ansia e che lo stava aspettando mi è sembrato di una dolcezza disarmante.
Quel giorno, dicevo, eravamo a casa di C. e stavamo aspettando che W. si dissetasse e riposasse un attimo prima di intraprendere la risalita verso la sua finca. C. gli stava raccontando del fatto che i membri del Consiglio il giorno precedente avevano dimenticato un  sacco di cacao che lui aveva appositamente preparato per farlo vendere alla Comunità. Era palesemente scocciato da questo fatto e si stava sfogando con W. perchè evidentemente sapeva che avrebbe trovato comprensione.
Fu allora che vidi per per la prima volta il volto di W. farsi serio; fece un discorso che mi affascinò per la sua schiettezza e assenza di retorica. “Qui manca la serietà di alcune persone. Io ho preso parte alla comunità perchè la sentivo mia, credevo nel progetto, negli obiettivi che ci stavamo dando. La realtà è che però da un po' di tempo quegli obiettivi si sono arrestati, la serietà ha lasciato posto alla pressapocaggine. E dato che è la mia comunità, io ho il dovere e il diritto di guardare in faccia il Consiglio e dire che se quegli obiettivi vengono a mancare io non posso non chiedermi perchè esiste questa comunità. La nostra resistenza è una lotta che ci espone molto di più che una normale sopravvivenza in questa terra...”. Non concluse la frase ma era come se stesse per dire che se deve rischiare la vita per qualcosa in cui crede, che per lo meno sia per qualcosa che lo rappresenta nella sua integrità. Non per un ideale che ci si è dati ma per tutto il processo che da esso si sviluppa.
E' un investimento di energie enorme essere coerente e fermi in un contesto del genere, non tutti sono in grado di accollarsi una peso tale e forse è questa la giustificazione alla scelta dei fratelli e delle sorelle di suo padre che hanno scelto di restare a Medellin e rinunciare alla propria terra.
Ogni modo, quando W. fece quel discorso lo avevo conosciuto da poco più di mezzora, eppure mi aveva appena regalato la prima critica costruttiva alla comunità da parte di un suo membro. Non sapevo come ringraziarlo, in particolare dopo quanto accaduto il secondo giorno di accompagnamento.

GIORNO 4

Una gallina tigrata mangia un mango caduto a terra. Il sole è sceso abbastanza per incrociare le foglie dei piccoli banani. In lontananza il rumore gonfio del pallone calciato nella cancha è seguito dalle urla d'incitamento degli spettatori. Saranno circa una decina ma sembrano una moltitudine in questa vereda che si affaccia sulla represa. Qui la natura ti avvolge e il suo rumoroso silenzio ti fa amare la lontananza da quello che noi troppo spesso chiamiamo civiltà.
Muneca, una cucciola di pochi mesi, corre senza sosta attorno alla posada senza dare un attimo di tregua a Viki, il cane più anziano che oltre ad essere sordo è pure cieco d'un occhio. Sotto il tetto di paglia del patio, Don H. si dondola sull'amaca: è appena tornato da una nuotata in famiglia. Gli altri erano rimasti giù al lago e questo non mi stupiva. Il più piccolo dei figli sta imparando a nuotare; quel giorno gli avevo insegnato un nuovo gioco: si doveva lanciare un tronco a qualche metro ed inseguirlo a stile libero. Ero più che certa che come ogni altro bambino nell'acqua,in quel momento stava costringendo tutti ad osservarlo mentre ripeteva quell'esercizio centinaia di volte.
Don H. era un professore e come tutti i professori amava i suoi momenti di solitudine. Da un paio di giorni l'osservavo mentre di tanto in tanto si allontanava per fare due passi, oppure si attardava in quella casetta di legno e lamiera vicino alla cancha che da circa sei anni era la scuola elementare della vereda. Quella casetta era il suo piccolo regno, là ci aveva accolto e spiegato di come il governo avesse demovilizado tutta quella zona per costruire la represa. Ettari e ettari di terra svenduti per due lire grazie alle minacce armate e sigillati dall'Ente di Protezione Ambientale. Aveva aggrottato le sopracciglia per rimettere assieme gli anni in cui si era spostato da una cittadina all'altra, il dolore di una figlia mai nata e poi il ritorno in  questa vereda, solo, per sondare il terreno prima di far tornare il resto della famiglia.
Mi bastava starmene lì, su quella sedia di plastica sotto l'albero di mango, e guardarlo mentre ondeggiava sul suo divano pensile per capire quanto quell'uomo amasse questo posto. Non si poteva davvero biasimarlo. Quella posada era davvero un piccolo pezzo di paradiso rubato ai sogni che ognuno di noi si fa e che, chissà poi perchè, iniziano con un “se mi va male nella vita...”; era un piccolo angolo di paradiso rubato alla mattanza mentale e fisica che si cela in questi luoghi. Silenziosa, invisibile, impercettibile, come il verme nella famosa mela rossa.

GIORNO 2

Quel giorno ci eravamo alzati con il primo sole, avevamo indossato le magliette d'accompagnamento e ci eravamo preparati sulla riva della baia per aspettare il Johnson, la piccola imbarcazione che ci avrebbe portato dall'altra parte della represa. Secondo i piani, una volta scesi dalla barca avremmo raggiunto con il pulmino pubblico il pueblo più grande. Lì avremmo trovato ad attenderci Don P. che ci avrebbe guidato per un'ora di cammino fino alla vereda che aveva da diversi mesi richiesto la visita dei membri del Consiglio perchè interessata a prendere parte alla comunità. La nostra presenza era a dir poco fondamentale perchè nessuno dei membri della comunità si era mai addentrato in quelle zone, risaputamente frequentate da paramilitari e sede di un ingombrante avamposto militare. Quel giorno ho imparato un'altra grande lezione: mai credere alla pianificazione di un colombiano.
Come intuibile dai miei condizionali, nessuno dei punti del programma fu rispettato. Per una serie di ragioni non posso entrare nei dettagli, ma ciò che è dato sapere è che per 4 ore mi sono ritrovata assieme ai miei compagni  e ai membri della delegazione in balia degli eventi. L'ipotesi più probabile fu dal primo istante un tentativo di imboscata. Il fantomatico Don P. non era presente nel luogo indicato e neppure la portentosa antenna del satellitare è riuscita a captare la connessione necessaria per contattarlo.
Immaginatevi che cosa abbia voluto dire essere in un luogo sconosciuto, non solo a noi ma anche alla gente che scortiamo, fatto di edifici sfitti e esercizi in disuso. Fare domande ai pochi commercianti esistenti e non ricevere nessuna risposta. Osservare le moto fermarsi e ripartire senza senso, sapere, e questa volta vedere, gli informatori  dei paracos chiudersi in casa per comunicare i nostri spostamenti. Trovare rifugio a casa di una ragazza, metterla in una posizione potenzialmente pericolosa solo per il fatto di averci accolto mentre cerchiamo di trovare una soluzione. Intuire che il “loro" obiettivo è farci intraprendere quell'ora di cammino da soli, alla cieca, e avere la consapevolezza che sono le 9.30 e fino alle 12 non ci sarà nessuna imbarcazione disponibile a riportarci in un territorio parzialmente protetto. Tutti avevamo paura, era palese da come ci guardavamo le spalle; dopo una settimana penso ancora che sia stato uno dei momenti in cui la fine si è appoggiata silenziosa più vicina alla mia testa.
La peculiarità  di questa situazione però è che mi ha fatto riflettere su una cosa: mentre se ti ribalti ai 140 in autostrada hai piena coscienza del fatto che se la luce si spegne deve essere necessariamente lì, da un momento all'altro, e che in fondo, me ne vogliano i credenti, ne sei tu il regista; nel mezzo di una situazione come quella che stavo vivendo, io non sapevo nulla. Né quanto sarebbe durata, né chi ne era il regista. Sensazione assai fastidiosa se si pecca di egocentrismo vitale.
L'unica cosa che credo abbiano avuto in comune questi due episodi è che sono entrambi cose delle quali non parlerai mai con la medesima intensità con la quale le hai vissute; entrambe sono seguite da notti insonni, fatte di fotogrammi di quanto è successo nella speranza di poterli cambiare, fatte di istantanee delle persone che ami e dalle quali vorresti farti toccare per sapere che sì, ci sei.


Quelli che seguono sono degli short-cuts dell'ultima settimana di accompagnamento nella regione di Cordoba. E' un pezzo composto da flash backs delle giornate intense appena vissute e riflette la loro caoticità emozionale. Forse risulterà difficile seguirlo ma per prima alla sottoscritta è risultato difficile fare una cernita degli eventi e delle sensazioni per tenervi aggiornati. L'ho chiamato come quel film assurdo nel quale l'inizio è la fine, perchè solo alla fine di questa settimana sono riuscita a prendere in mano la penna e a scrivere quello che è stato. Lunedi' riusciro' a postare due articoli che ho a cuore e che sicuramente sono piu' interessanti di quanto segue. Uno e' un report piu' dettagliato sulla vicenda Chiquita della quale avevo gia' parlato precedentemente; l'altro riguarda la vicenda degli espropri della Represa di Urra, ovvero della diga che una volta costruita ha formato il lago sulla quale sono affacciate parte delle veredas dove sono appena stata.