giovedì 7 giugno 2012

MEMENTO


GIORNO 7

Quando ero piccola, alta poco più di mezzo metro, adoravo scavalcare la rete del giardino di casa e lanciarmi in avventure immaginarie nella boscaglia circostante. Mi piaceva essere avvolta dalle foglie, infilarmi tra i rami fitti e taglienti dei cespugli, sentire l'odore delle stagioni che si susseguivano.
Ora avevo in mente quello di primavera mentre W. Si faceva strada affettando con il machete le piante di granoturco alte più di due metri, lasciandosi alle spalle un profumo di linfa che m'inondava le narici. Risalivamo gli immensi campi di mais e riso, e ,nel mentre che mi indicava i confini della finca, mi facevo raccontare della cecità di suo prozio J.
J. era il fratello di suo nonno, un uomo estremamente elegante nonostante la mancanza della vista lo facesse arrancare sui terreni irregolari del suo villaggio. L'avevo conosciuto il terzo giorno durante una visita ad una vereda dall'altra parte della represa; delle famiglie avevano chiesto un incontro con alcuni membri del Consiglio della comunità perchè erano interessati a prenderne parte.
Fin dal primo momento che abbiamo parlato J. mi ha dato l'impressione di essere davvero stupito della nostra presenza in quel posto. A tratti era quasi imbarazzante l'onore che mostrava nell'avere ospiti stranieri. Per questa lusinghiera accoglienza, mentre il resto della delegazione si faceva mostrare da suo figlio i campi di cacao, io ho preferito rimanere con lui, che mi chiedeva dell'Italia, del tempo e del cibo.
“Mi hanno detto che gli spagnoli come piatto speciale ne hanno uno a base di riso, la “paella”, curioso dato che noi non mangiamo altro; speravo che la colonizzazione fosse servita almeno a qualcosa”, sono tuttora convinta che se avesse potuto avrebbe strizzato l'occhio per accompagnare questa battuta. Poi incalzò: “ E quindi hai fatto studi politici...Che mi dici della Colombia?”. Con il mio spagnolo cercavo di fare le mie idee, di per sé ingarbugliate, il più chiare possibile: “E' un paese stupendo, non credo di aver mai visto un terra così viva, così ricca di vegetazione e fertile. Pero' per quel poco che ho visto da quando sono qui, posso dire che politicamente mi sembra un casino. Tutto è una contraddizione. Anche questa cosa che ho detto: c'è tanta terra, nella maggior parte fertile; eppure proprio per il controllo della terra è in corso un massacro, e la gente in città muore di fame...”. J. fissò il vuoto facendo roteare delicatamente il bastone tra le sue dita di campo: “Dici bene. Qui si pensa di poter affrontare e resistere alla mattanza senza includere la politica, si ha paura di parlare di politica per via di quello che successo con le FARC. Ma la politica è l'arte di fare funzionare le cose e noi qui, come dici tu, abbiamo un casino. Quindi abbiamo bisogno di una politica”.
Ho amato la semplicità della logica del suo discorso. E' la stessa che rividi dopo qualche ora, quando suo figlio fece alcune domande mirate ai membri del Consiglio per sapere che garanzie avrebbe avuto come coltivatore di cacao se avesse preso parte al progetto. Ogni volta che loro si perdevano in dietrologie e propaganda, lui li ascoltava, sorrideva, e con la stessa posatezza del padre riportava il discorso al senso della domanda iniziale. Anche lui era un uomo saggio e colto; aveva affascinato tutti con i suoi racconti sulla sua esperienza di lavoro nelle comunità di indigeni, sui suoi esperimenti di innesto botanici, sulla sua passione per la scultura, testimoniata da una statua della Pacha Mama alta 20 centimetri e ricavata da un ceppo della sua finca.
Erano persone che mi avevano colpito in maniera particolare ed è per questo che ora che avevo scoperto che erano parenti di W. e di suo padre M. provavo una sensazione di conforto, come la rarissima conferma che buono chiama buono, che positivo riflette positivo. E questo sollievo mi accompagnava mentre risalivo i campi di mais e di riso, con l'olfatto pieno di linfa per un secondo identico a quello che sentivo da bambina.
La proprietà della famiglia di W. Era enorme: 150 ettari che si spalmavano sulle arricciature delle alture della represa. L'orgoglio di W. ti si rifletteva negli occhi mentre ti spiegava questa o quella pianta, le tecniche apprese in Portogallo da una comunità sostenibile per creare allevamenti di pesci sfruttando le falde acquifere. W. era una persona allegra e travolgente nel raccontare le cose; per questo anche se non ne capisco nulla seguivo minuziosamente ogni sua parola.
Nei tre giorni passati con lui e la sua famiglia ho visto il sorriso scomparirgli dal volto solo in due momenti e uno di questi fu quando finalmente arrivammo sul filo della risaia. Lì mi racconto di quando nel 2002 gli attacchi paramilitari portarono lui e la sua famiglia a desplazarsi. Tutte le coltivazioni andarono distrutte, 30 anni di lavoro di suo padre, e prima ancora di suo nonno, vennero buttati al vento, fortunatamente non al fuoco, sorte che invece toccò alla loro casa. Quando tornarono dopo sei anni, nel 2008, dovettero ricominciare tutto da zero. M., assieme a tre dei suoi figli (W., H. e C.) furono i soli a fare ritorno. Gli altri membri della famiglia preferirono fermarsi nella città di Medellin. Si intuiva dai suoi occhi mentre il figlio raccontava che questa scelta non era  facile da accettare per M.: non riusciva a spiegarsi come potessero, con tutta questa terra a disposizione, preferire di rimanere in città a fare la fame.
Credo che una giustificazione a questa scelta io l'avessi già carpita, ed era direttamente riconducibile alla prima volta nella quale il sorriso di W. lasciò spazio ad un espressione seria.

GIORNO 6
Eravamo a P.N, in casa di C. che aveva una piccola proprietà in un'insenatura della represa. Ci aveva ospitato per una notte pirma che risalissimo il monte verso casa di W.
C. era stato per anni un coltivatore di coca. Un uomo di sostanza, come diremmo noi, con una pancia gigante e dei pantaloni sempre leggermente calati sul di dietro, che lasciavano intravedere la peluria e il sudore delle natiche nero carbone. Dopo anni di coltivazione illecita, la morte del padre (anche lui cocalero e ammazzato da non si sa quale fazione), lo aveva spinto ad abbandonare. Lasciare un mercato del genere non è facile: il capo della guerriglia di zona si presento' personalmente per chiedere spiegazioni e C. dovette chiarire la sua posizione, spiegare che voleva semplicemente tornare a coltivare frutta e verdura, che non aveva intenzione di cambiare bandiera, né tanto meno di fornire informazioni all'altra parte; stesso chiarimento dovette affrontare con i paramilitari, ai quali per anni aveva versato una tangente per poter vendere alle FARC (altra contraddizione che un paese come la Colombia ti riserva).
Nonostante i suoi precedenti, C. non riusciva a starmi antipatico né a stimolarmi diffidenza. Lo vedevo umano nei suoi errori palesati, nella sua pancia gonfia e pelosa. Lo avevo sentito intimamente vicino al mio vissuto quando involontariamente l'ho visto nella zona cucina far scivolare  una mano nell'interno coscia di sua moglie e afferrarle il seno con quell'altra, sbirciarli in un sorriso compice quanto fugace, subito arrestato da lei per paura che si bruciassero i fagioli. E poi non avrei potuto mai voler male ad un uomo che mi aveva regalato un momento fiabesco quando la sera precedente si era allontanato con la compagna per recuperare una canoa prestata alla famiglia di Don H.
La notte era calata da una mezzora ed i tuoni si infrangevano sulla cornice dei monti, accesa dalla luce dei lampi sull'acqua. Willy, il figlio di 6 anni di C., inizava ad agitarsi non vedendo rincasare i genitori, e per quanto i nostri sforzi di distrarlo giocando a Merda con le carte fossero più che lodevoli, lo sguardo del bambino continuava a scavalcarci, puntando la baia oscurata. Passò ancora una mezzora e poi nel buio riecheggiò la voce di C.: “Willy, papi est acà”. E prima ancora che l'eco si perdesse nella represa, la paura era scomparsa dal suo volto. Non so perchè. Ma il fatto che quell'uomo sapesse perfettamente che suo figlio era in ansia e che lo stava aspettando mi è sembrato di una dolcezza disarmante.
Quel giorno, dicevo, eravamo a casa di C. e stavamo aspettando che W. si dissetasse e riposasse un attimo prima di intraprendere la risalita verso la sua finca. C. gli stava raccontando del fatto che i membri del Consiglio il giorno precedente avevano dimenticato un  sacco di cacao che lui aveva appositamente preparato per farlo vendere alla Comunità. Era palesemente scocciato da questo fatto e si stava sfogando con W. perchè evidentemente sapeva che avrebbe trovato comprensione.
Fu allora che vidi per per la prima volta il volto di W. farsi serio; fece un discorso che mi affascinò per la sua schiettezza e assenza di retorica. “Qui manca la serietà di alcune persone. Io ho preso parte alla comunità perchè la sentivo mia, credevo nel progetto, negli obiettivi che ci stavamo dando. La realtà è che però da un po' di tempo quegli obiettivi si sono arrestati, la serietà ha lasciato posto alla pressapocaggine. E dato che è la mia comunità, io ho il dovere e il diritto di guardare in faccia il Consiglio e dire che se quegli obiettivi vengono a mancare io non posso non chiedermi perchè esiste questa comunità. La nostra resistenza è una lotta che ci espone molto di più che una normale sopravvivenza in questa terra...”. Non concluse la frase ma era come se stesse per dire che se deve rischiare la vita per qualcosa in cui crede, che per lo meno sia per qualcosa che lo rappresenta nella sua integrità. Non per un ideale che ci si è dati ma per tutto il processo che da esso si sviluppa.
E' un investimento di energie enorme essere coerente e fermi in un contesto del genere, non tutti sono in grado di accollarsi una peso tale e forse è questa la giustificazione alla scelta dei fratelli e delle sorelle di suo padre che hanno scelto di restare a Medellin e rinunciare alla propria terra.
Ogni modo, quando W. fece quel discorso lo avevo conosciuto da poco più di mezzora, eppure mi aveva appena regalato la prima critica costruttiva alla comunità da parte di un suo membro. Non sapevo come ringraziarlo, in particolare dopo quanto accaduto il secondo giorno di accompagnamento.

GIORNO 4

Una gallina tigrata mangia un mango caduto a terra. Il sole è sceso abbastanza per incrociare le foglie dei piccoli banani. In lontananza il rumore gonfio del pallone calciato nella cancha è seguito dalle urla d'incitamento degli spettatori. Saranno circa una decina ma sembrano una moltitudine in questa vereda che si affaccia sulla represa. Qui la natura ti avvolge e il suo rumoroso silenzio ti fa amare la lontananza da quello che noi troppo spesso chiamiamo civiltà.
Muneca, una cucciola di pochi mesi, corre senza sosta attorno alla posada senza dare un attimo di tregua a Viki, il cane più anziano che oltre ad essere sordo è pure cieco d'un occhio. Sotto il tetto di paglia del patio, Don H. si dondola sull'amaca: è appena tornato da una nuotata in famiglia. Gli altri erano rimasti giù al lago e questo non mi stupiva. Il più piccolo dei figli sta imparando a nuotare; quel giorno gli avevo insegnato un nuovo gioco: si doveva lanciare un tronco a qualche metro ed inseguirlo a stile libero. Ero più che certa che come ogni altro bambino nell'acqua,in quel momento stava costringendo tutti ad osservarlo mentre ripeteva quell'esercizio centinaia di volte.
Don H. era un professore e come tutti i professori amava i suoi momenti di solitudine. Da un paio di giorni l'osservavo mentre di tanto in tanto si allontanava per fare due passi, oppure si attardava in quella casetta di legno e lamiera vicino alla cancha che da circa sei anni era la scuola elementare della vereda. Quella casetta era il suo piccolo regno, là ci aveva accolto e spiegato di come il governo avesse demovilizado tutta quella zona per costruire la represa. Ettari e ettari di terra svenduti per due lire grazie alle minacce armate e sigillati dall'Ente di Protezione Ambientale. Aveva aggrottato le sopracciglia per rimettere assieme gli anni in cui si era spostato da una cittadina all'altra, il dolore di una figlia mai nata e poi il ritorno in  questa vereda, solo, per sondare il terreno prima di far tornare il resto della famiglia.
Mi bastava starmene lì, su quella sedia di plastica sotto l'albero di mango, e guardarlo mentre ondeggiava sul suo divano pensile per capire quanto quell'uomo amasse questo posto. Non si poteva davvero biasimarlo. Quella posada era davvero un piccolo pezzo di paradiso rubato ai sogni che ognuno di noi si fa e che, chissà poi perchè, iniziano con un “se mi va male nella vita...”; era un piccolo angolo di paradiso rubato alla mattanza mentale e fisica che si cela in questi luoghi. Silenziosa, invisibile, impercettibile, come il verme nella famosa mela rossa.

GIORNO 2

Quel giorno ci eravamo alzati con il primo sole, avevamo indossato le magliette d'accompagnamento e ci eravamo preparati sulla riva della baia per aspettare il Johnson, la piccola imbarcazione che ci avrebbe portato dall'altra parte della represa. Secondo i piani, una volta scesi dalla barca avremmo raggiunto con il pulmino pubblico il pueblo più grande. Lì avremmo trovato ad attenderci Don P. che ci avrebbe guidato per un'ora di cammino fino alla vereda che aveva da diversi mesi richiesto la visita dei membri del Consiglio perchè interessata a prendere parte alla comunità. La nostra presenza era a dir poco fondamentale perchè nessuno dei membri della comunità si era mai addentrato in quelle zone, risaputamente frequentate da paramilitari e sede di un ingombrante avamposto militare. Quel giorno ho imparato un'altra grande lezione: mai credere alla pianificazione di un colombiano.
Come intuibile dai miei condizionali, nessuno dei punti del programma fu rispettato. Per una serie di ragioni non posso entrare nei dettagli, ma ciò che è dato sapere è che per 4 ore mi sono ritrovata assieme ai miei compagni  e ai membri della delegazione in balia degli eventi. L'ipotesi più probabile fu dal primo istante un tentativo di imboscata. Il fantomatico Don P. non era presente nel luogo indicato e neppure la portentosa antenna del satellitare è riuscita a captare la connessione necessaria per contattarlo.
Immaginatevi che cosa abbia voluto dire essere in un luogo sconosciuto, non solo a noi ma anche alla gente che scortiamo, fatto di edifici sfitti e esercizi in disuso. Fare domande ai pochi commercianti esistenti e non ricevere nessuna risposta. Osservare le moto fermarsi e ripartire senza senso, sapere, e questa volta vedere, gli informatori  dei paracos chiudersi in casa per comunicare i nostri spostamenti. Trovare rifugio a casa di una ragazza, metterla in una posizione potenzialmente pericolosa solo per il fatto di averci accolto mentre cerchiamo di trovare una soluzione. Intuire che il “loro" obiettivo è farci intraprendere quell'ora di cammino da soli, alla cieca, e avere la consapevolezza che sono le 9.30 e fino alle 12 non ci sarà nessuna imbarcazione disponibile a riportarci in un territorio parzialmente protetto. Tutti avevamo paura, era palese da come ci guardavamo le spalle; dopo una settimana penso ancora che sia stato uno dei momenti in cui la fine si è appoggiata silenziosa più vicina alla mia testa.
La peculiarità  di questa situazione però è che mi ha fatto riflettere su una cosa: mentre se ti ribalti ai 140 in autostrada hai piena coscienza del fatto che se la luce si spegne deve essere necessariamente lì, da un momento all'altro, e che in fondo, me ne vogliano i credenti, ne sei tu il regista; nel mezzo di una situazione come quella che stavo vivendo, io non sapevo nulla. Né quanto sarebbe durata, né chi ne era il regista. Sensazione assai fastidiosa se si pecca di egocentrismo vitale.
L'unica cosa che credo abbiano avuto in comune questi due episodi è che sono entrambi cose delle quali non parlerai mai con la medesima intensità con la quale le hai vissute; entrambe sono seguite da notti insonni, fatte di fotogrammi di quanto è successo nella speranza di poterli cambiare, fatte di istantanee delle persone che ami e dalle quali vorresti farti toccare per sapere che sì, ci sei.

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