Per la prima volta
da quando sono arrivata ho avuto modo di fare un accompagnamento senza la capa.
Forse non mi fa onore dirlo ma è stato un po' come avere la casa libera per il
fine settimana quando si ha sedici anni. Adesso che sto per andarmene posso ammetterlo: ho fatto una fatica pazzesca a sopravvivere agli atteggiamenti delle
persone con le quali ho lavorato, in particolari i suoi.
Questi giorni
libera dal suo controllo mi hanno dato finalmente la possibilità di vivere la
situazione in accompagnamento come avrei sempre voluto: prendermi il tempo per
farmi stupire dalla natura mentre raggiungo i posti più dispersi; farmi
raccontare delle diverse tipologie di mango, fermarmi ad assaggiarle per
carpirne la differenza; imparare a distinguere le piante taglienti per evitare
di diventare ciò che sono, un corpo coperto di segni; concedermi il tempo,
“banalmente”, per stabilire un contatto umano ed intimo con questa gente che
dovrei proteggere e con la quale devo convivere; avere la conferma del fatto
che con me le persone si sentono a loro agio nel raccontarsi.
Se ci fosse stata
lei non mi sarebbe mai venuto durante il cammino di due ore di confessare a
Wualbert che l'odore di mango imputridito mi ricorda terribilmente il mercato
di Modurua di Nairobi dove mi hanno sequestrato due anni fa. La sua presenza
avrebbe impedito a lui di raccontarmi della volta in cui è stato sequestrato
dai paramilitari a 12 anni. Non si sarebbe sentito libero di parlare a ruota
libera per mezzora, non avrei notato i colpi di verga sul sedere della mula che
si facevano più intensi quando la rabbia gli bloccava la voce.
Nulla di questo e
di quello che racconterò sarebbe successo, per quanto si tratti di semplici
scampoli di vita di progetto, perchè ogni qual volta ho tentato di fare a modo
mio, di creare dei canali preferenziali con le persone che mi circondavano, ho
sempre avuto la sensazione, talvolta accompagnata da una sua diretta conferma,
di essere osservata in attesa di un passo falso. Ciò che mi ha reso la vita difficile
è stato il fatto che le ammonizioni non siano mai verificate in maniera costruttiva, seduti
ad un tavolo in cui uno spiega all'altro
le ragioni dei suoi comportamenti per trovare una soluzione; il suo è un
atteggiamento figlio della più ferrea cultura cattolica parrocchiale, qualcosa
che mi mette l'ansia solo a pensarlo figurati a viverlo 24 ore su 24.
Si tratta
di quel modo di agire della chiesa in cui l'obbligo viene addolcito perchè
sancito da un uomo che veste di bianco; quel modo di parlare dove ricorre l'utilizzo
del “noi” e delle parole “pace e fratellanza” salvo non rendersi conto che “noi” può voler dire
“non tu” e che le voci “pace e fratellanza” stonano molto con i giudizi cocenti
sugli stili di vita altrui tipici di questa gente e figli della stessa
organizzazione che ha istituzionalizzato l'Inquisizione e l'omofobia.
Ho fatto fatica
dunque, molta fatica, ma alla fine, per usare un altro termine che a questa
gente piace molto, la “giustizia divina” ha fatto il suo corso e sono riuscita
a raccogliere informazioni un po' piu' dettagliate su uno dei business che sta
dietro a questa taciuta guerra civile: la cocaina. Ottenere informazioni
ufficiali sulla coltivazione illecita in un contesto in cui lo stesso SAT, il Sistema di Allerta Temprana (un ente istituito
dallo stato che si occupa di raccogliere denunce di civili in forma anonima per
redigere dei report da pubblicare online ed inviare al governo perchè sia
costantemente informato sullo stato delle cose), viene impedito a pubblicare
sul web i dati che raccoglie perchè minano gli investimenti internazionali non
è un operazione facile. Vivere a stretto contatto con i campesinos quindi,
rappresenta un valore aggiunto, con la dovuta cautela è possibile sapere dei
prezzi “all'origine” e cosa comporta essere un cocalero; sono informazioni che
non ottiene chiunque e che non vengono date a chiunque, perciò sono felice che
dopo tre mesi chi me le ha fornite si sia fidato di me.
Perchè diventi
produttiva, la pianta di coca ha bisogno di un anno, una volta pronta può
fruttare fino a 4 raccolti l'anno e durare 10 anni. Ora, mettiamo che un
contadino abbia un ettaro di terra e che decida di coltivarlo a coca: ogni
raccolto frutta 150 arrobas, che sono i sacchi di foglie utilizzati come
unità di misura. Una arroba equivale a 12 kg di foglie e costa al
contadino 5000 CPO (pesos colombiani), ovvero il prezzo che egli paga al raspacino
perchè gliela raccolga (è infatti inverosimile che al fronte di una data di
consegna il campesino da solo riesca a raccogliere tutte le foglie di coca che
produce). Per produrre un chilo di pasta di coca sono necessari 300 kg di
foglie e un chilo di pasta fattura al campesino 2200000 CPO. Tuttavia, se il
campesino vive in una regione come quella di Cordoba o Antioquia, dove il
controllo sul narcotraffico è gestito da FARC e paramilitari, questo si troverà
a pagare un pizzo di 400.000 CPO (200.000 per ogni gruppo criminale) su ogni
chilo di pasta di coca che vende, la così detta vacuna.
Problema: Quanto
fattura alla fine di ogni raccolto il campesino tenendo conto che 1 euro
equivale a 2300 CPO? Quanto e' la differenza con quanto fattura il medesimo
raccolto in Italia tenendo conto che dopo diversi tagli un chilo di coca nel
nostro paese vale circa 150.000 euro?
Soluzione: Un
ettaro di terra produce 6 kg di pasta di coca che equivalgono a 10.050.000 CPO
al netto della mano d'opera per i raspacinos e delle vacunas per i gruppi
armati illegali. Il prezzo all'origine di 1800 kg di foglie che diventeranno, una volta processate, 6 kg di coca è di 4367 euro. I medesimi chili di coca purissima, tagliati varie
volte prima che arrivino alle narici italiane spacciati per un puro al 90%,
valgono 900.000 euro.
Se poi dopo uno ha
la fortuna di avere un contatto diretto con la popolazione campesina si può
permettere il lusso di chiedere cosa pensano loro in merito all' ipotesi di
legalizzare la coltivazione di coca e si può
rimanere sorpresi nel ricevere come risposta un secco “no, non siamo
d'accordo”. Ho chiesto delucidazioni e mi è stato spiegato che dal punto di
vista del coltivatore la legalizzazione sarebbe un danno economico: il prezzo
della vendita di foglie si abbasserebbe facendo crollare il mercato, chi cerca
la coca (in prevalenza noi europei e gli statunitensi) si troverebbe un altro
paese in cui fare affari. Ciò che capisco rimarrebbe inalterato è il guadagno
pazzesco che fanno organizzazioni mafiose come la 'ndrangheta che
narcotrafficano nei paesi consumantori: se l'offerta cala ma la domanda rimane
invariata il prezzo del bene sale alle stelle, e dubito che chi consuma
abitualmente cocaina sia disposto a rinunciarvici domani.
Alle informazioni
dei campesini si aggiungono poi quelle degli incontri informali con gli
operatori del SAT i quali, sempre se riesci a stabilire un canale confidenziale
con la persona, ti spiegano che sono in possesso di informazioni che
stabiliscono con certezza il fatto che i militari stessi sono talvolta
proprietari di coltivi illeciti e che spesso e volentieri organizzano finti
scontri tra paramilitari ed esercito nelle zone in cui i contadini si rifiutano
di coltivare coca per poter recintare militarmente i campi ed impossessarsi del
territorio il tempo necessario per impiantare un campo e godersi i frutti del
raccolto. Ciò che sta dietro al business e al conflitto infatti, è la cresta
che paramilitari e guerrilla riescono a fare sul raccolto, processando le foglie di coca per creare la pasta e proponendosi come
intermediari tra i campesinos e le organizzazioni che narcotrafficano fuori dal
paese.
Quando ho finito di
farmi raccontare del business che sta dietro alla tanto amata polvere bianca ero ben lontana dall'aver esaurito le domande e i dubbi su tutto quello che
riguarda quest'argomento, ma mi sono fermata. Ho osservato il mio interlocutore
ed ho capito che piu' in là non aveva voglia di andare, davanti a sé aveva un
enorme piatto di riso, insalata di avocados e arepa ed il discorso per lui era
chiuso li'.
La lontananza di un
controllo costante è stata funzionale anche alla possibilità di affrontare
discorsi più leggeri, spensierati. Al di là del contesto, della differenza di
cultura, spesso ti trovi a fare da scudo a dei coetanei o a gente che ha
qualche anno più di te; a volte semplicemente è bello guardarsi una finale
(disastrosa) degli europei assieme o parlare della vita, del futuro, “di quella
volta che...”.
Un giorno di questi
eravamo tutti intenti a fare dei lavoretti di artigianato, io personalmente sto
sfidando le leggi della fisica e mi sto buttando sulla tessitura di bracciali e
cavigliere in perline (tanto per dare l'idea: quel giorno dopo 4 ore ho finito
un braccialetto con il nome di una delle ragazze che ci ospitava salvo poi scoprire
che l'avevo scritto nella maniera sbagliata; per la serie: è pur vero che chi
persevera vince e che dalla merda può nascere un fiore ma poi non è detto che
quel fiore profumi). Dialogo.
“Se potessi
scegliere come lo vorresti un compagno, uno con cui mettere su casa?”
Dentro di me
penso;: “cazzo già faccio fatica a infilare ste stronze di perline poi tu mi
chiedi ste robe...va bhe..”
“Se potessi vorrei
qualcuno che mi accompagnasse in questa vita itinerante, una persona abbastanza
a posto e adattabile da potersi vivere al meglio ogni luogo in cui è. Se
potessi vorrei una persona che mi dica che sono bella anche quando penso di
essere un cesso e che sia capace di farmi sentire sua anche in mezzo alla gente
senza essere invadente. Se avessi modo di scegliere, vorrei una persona con la
quale ridere, con la quale fare l'alba a ballare e bere ma che allo stesso
tempo capisca quando queste cose ho voglia di farle da sola con i miei amici.
Se potessi sceglierla, vorrei che questa persona sapesse riconoscere quando sto
male e che in quei momenti mi guardasse, non dicesse nulla, che mi mettesse una
mano sulla testa e mi sussurrasse“ci penso io”. Vorrei una persona che proteggesse la
mia persona ed il nostro rapporto prima di ogni altra cosa; che non tradisse me
e la mia fiducia. Qualcuno che mi veda come madre dei suoi figli e che per
questo non smetta di desiderarmi come donna. E tu?”
“Se potessi vorrei
una donna che credesse in Dio, che fosse avventista come me o che rispettasse
il mio credo. Sceglierei una donna che ama questo posto e che capisce
l'importanza che per me ha vivere nella terra che è stata della mia famiglia.
Se potessi sceglierei una donna con delle curve importanti, non grossa, ma con
delle forme che si vedono. Vorrei che sapesse cucinare i prodotti che
coltiviamo come facciamo noi. Mi piacerebbe una donna che sapesse guidare e che
avesse una buona cultura, che leggesse i giornali. Se potessi vorrei una donna
che se non ci fossi io si comportasse esattamente come avrei fatto io. Una
donna della quale essere orgoglioso insomma.”
“Dici che ce la
facciamo a scegliere Walter?”.
Scoppia a ridere:
“Io credo di no; quale donna sceglierebbe liberamente di vivere in una finca tra
paramilitari e guerrillieri?”.
“Siamo fottuti
Walter! Perchè secondo te quale persona trova allettante una donna che adora
stare in giro, nei posti più dimenticati da Dio, ballare, bere e che allo
stesso tempo non vuole avere 40 anni per fare un figlio? Una bipolare...”.
“Nessuno”, continua
a ridere mentre affila il machete, “Comunque per la media colombiana sei già
troppo vecchia per fare un figlio, buttati sui balli e sui viaggi”.
“Parli tu che c'hai
30 anni e sei uno scapolo in mezzo al nulla”.
La sorella di
Walter ride mentre pulisce la pentola e anche noi continuiamo a ridere, mi
mancava questa sensazione di leggerezza dello sfottò tra amici.
“Dai però,
idealismi a parte, una cosa in una donna che se la trovi dici: questa me la
sposo?”.
“Vediamo”, si fa
serio mentre continua a scalfire il legno di cocco, “una che sa cucinare
un'ottima torta d'arepa e che mi fa dormire sull'amaca: io sul letto non ci
voglio dormire. Tu?
“Ah questo è un
grande classico del mio repertorio Walter, lo dico sempre perchè intimamente so
che è difficile che accada: un uomo che così, senza motivo, mi prende e mi fa
ballare, anche un attimo, un passo a due. Se poi mi regala una bicicletta è
l'uomo della mia vita”.
“Non potrei mai
essere io, non so ballare e poi non te ne faresti nulla di una bici in mezzo
alla selva”.
“Walter nenache io
potrei essere la donna per te. Sono atea e dubito di saper cucinare una torta
d'arepa”.
Continuiamo i
nostri lavori d'artigianato e a ridere delle nostre disavventure amorose. Alla
fine Walter mi regala un anello di cocco e mi dice: “vediamo se così ti senti
più protetta e ti decidi a scegliere”.
La sera vado da lui
e gli traduco un pezzo tratto dalla biografia di un rifugiato sudanese che ho
finito di leggere quei giorni, in questo brano racconta della perdita
dell'amore della sua vita, conosciuta in un campo rifugiati, ritrovata negli
Stati Uniti e lì uccisa da un alttro sudanese che la perseguitava:
“E' fatta apposta
per chiudere le nostre chiacchere di oggi sull'amore:
Se mai amerò
ancora non aspetterò di amare al mio meglio. Pensavamo di essere giovani e che
questo significasse avere tempo per amare meglio in futuro. E' un modo
terribilmente sbagliato di pensare. Aspettare di amare non è un modo di vivere.”
“E' meglio se
imparo bene a farmi la torta di arepa come piace a me”
“Ed io è meglio se
vado a piedi”
“Buonanotte”
“Buonanotte
Walter”.
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