L'altro giorno verso l'ora di pranzo ero
seduta sulla panchina di fronte a casa. Alla mia partenza, per quanto io abbia
cercato di risolvere, ho lasciato delle questioni, dei rapporti in sospeso.
Amici, persone che conosco da anni, con i quali da un giorno all'altro è calato
il silenzio.
Sono entrata, ho preso una sigaretta Caribe e
sono uscita nuovamente continuando a pensare. Nella mattinata avevo avuto modo
di parlare con un'amica in Italia di un recente caso di mutismo che ha
inevitabilmente riaperto questa piaga.
Nervosamente tiravo la sigaretta riflettendo
sul fatto che faccio sempre più fatica a dire di un uomo: “questo ha le palle”.
Avere gli attributi a mio avviso è qualcosa che esula dalla classica
connotazione machista, significa assumersi la responsibilità delle proprie
azioni, dei propri pensieri. Significa saperli motivare confrontandosi senza
riserve perchè si crede in ciò che si sta facendo, nella sua buona fede anche
nell'errore. Quindi per quale ragione alcune persone spariscono “senza addurre
spiegazioni plausibili” se non per assenza di palle? A volte, quando
interpellate dalla mia cocciutaggine, mi hanno risposto che erano concentrate
su cose differenti, altre che semplicemente non ne avevano voglia.
La sigaretta era quasi finita e pensavo che se
mai lasciassi andare un rapporto per assenza di tempo o di voglia le
possibilità potrebbero essere due: o quel rapporto non era abbastanza
importante e però se dall'altra parte generassi una delusione significherebbe
che per tutto il tempo in cui quel rapporto è esistito c'è stata una
dis-comunicazione; oppure vorrebbe dire che sono diventata una che dà modo alla
vita di fottere la sua esistenza che, ad oggi che mi reputo ancora “pura”, non
sarebbe tale senza le persone che hanno camminato con me fino a qui. Dò
l'ultimo tiro e mi viene in mente una frase di John Lennon: “la vita è
quello che ti sta succedendo mentre tu ti impegni a fare altri piani”.
Spengo la cicca tra l'amareggiato e il
consapevole, alzo lo sguardo e vedo che dal cancello della comunità entrano
alcuni ragazzi che portano a peso un lenzuolo bianco.
Man mano che si avvicinano noto delle macchie
rosse nella parte superiore. Mi passano davanti e capisco che quel peso è un
corpo, che quel rosso è sangue.
La signora Mita aveva più di ottant'anni ed
era la mamma di Irene “la gorda”, proprietaria di una bottega nel paese vicino.
Ogni giorno si diceva che Mita facesse quasi un chilometro a piedi per portare
cibo da una vereda all'altra. Quella mattina, complice il fango tipico della
stagione delle piogge, la signora è scivolata spaccandosi la testa su un sasso.
Se ne è andata in un'ora, senza nemmeno dare il tempo di portarla in ospedale.
I ragazzi della comunità la stavano
trasportando nel chiosco del villaggio, lo stesso dove la sera precedente si
aveva rumbeado fino alle due del mattino per festeggiare la Fiesta de las
madres.
Le persone da quel momento hanno cominciato un
incessante pellegrinaggio per salutare la senora Mita. Non era l'ultimo saluto
come lo intendiamo noi, fatto di volti scuri talvolta forzati. I bambini
correvano e giocavano attorno al chiosco mentre le madri dicevano una preghiera
o facevano due chiacchere. I leaders della comunità dall'autoparlante
reclutavano volontari per scavare la fossa in quel pezzo di jungla poco fuori
dal villaggio adibito a cimitero. Per tutta la notte le luci sono rimaste
accese mentre gli uomini, cinti attorno alla salma, giocavano a domino dandosi
il cambio per non lasciarla sola.
Il giorno successivo abbiamo partecipato al
funerale. E' stata una scena alla Amici Miei: la fossa scavata il giorno
precedente era piena di acqua piovana; le grida di dolore delle nipoti venivano
coperte dalle suonerie per cellulari più di cattivo gusto della storia; la
signora Irene guardava impazientemente l'ora per il timore che si facesse
troppo tardi per rincasare. Il buio è sceso tra i banani del cimitero mentre
venivamo docciati dalle secchiate d'acqua e fango che grossolanamente
eruttavano dalla fossa per far posto alla bara. Le risate venivano lasciate
uscire libere, senza il timore di risultare fuori luogo.
Sul sentiero verso casa, mentre alzavo il naso
per vedere le stelle, pensavo alla signora Laura. La vecchia che abitava sopra
casa dei miei e mancata qualche mese prima della mia partenza. La signora Laura
è stata la prima ad insegnarmi i canti partigiani; indimenticabili i suoi
cracker Doriano con il salame a metà pomeriggio, le caramelle al limone
comprate all'alimentare di via Castiglione e tagliate con il coltello per non
farci soffocare.
Le tre notti precedenti al suo funerale i
parenti l'hanno lasciata sola, con una semplice luce accesa e la finestra della
sala lasciata socchiusa. Ricordo che una di quelle sere, rincasando un po'
brilla alle quattro del mattino, ho spalancato la finestra e ho messo a tutto
volume “Quel mazzolin di fiori” e “Bella Ciao”; l'ho fatto per tigna, per
sentirmi meno sola, perchè si sentisse meno sola.
Le stelle si moltiplicavano tanto da
affaticare gli occhi e io riflettevo:
forse il senso di una vita di comunità è anche questo. Se il dolore di
uno diventa il dolore di tutti, se lo si condivide, è possibile che la sua
intensità si attenui? La compassione accelera il tempo di recupero da una
sofferenza?
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