venerdì 18 maggio 2012

Riflettendo dalla palla alla pala


L'altro giorno verso l'ora di pranzo ero seduta sulla panchina di fronte a casa. Alla mia partenza, per quanto io abbia cercato di risolvere, ho lasciato delle questioni, dei rapporti in sospeso. Amici, persone che conosco da anni, con i quali da un giorno all'altro è calato il silenzio.
Sono entrata, ho preso una sigaretta Caribe e sono uscita nuovamente continuando a pensare. Nella mattinata avevo avuto modo di parlare con un'amica in Italia di un recente caso di mutismo che ha inevitabilmente riaperto questa piaga.
Nervosamente tiravo la sigaretta riflettendo sul fatto che faccio sempre più fatica a dire di un uomo: “questo ha le palle”. Avere gli attributi a mio avviso è qualcosa che esula dalla classica connotazione machista, significa assumersi la responsibilità delle proprie azioni, dei propri pensieri. Significa saperli motivare confrontandosi senza riserve perchè si crede in ciò che si sta facendo, nella sua buona fede anche nell'errore. Quindi per quale ragione alcune persone spariscono “senza addurre spiegazioni plausibili” se non per assenza di palle? A volte, quando interpellate dalla mia cocciutaggine, mi hanno risposto che erano concentrate su cose differenti, altre che semplicemente non ne avevano voglia.
La sigaretta era quasi finita e pensavo che se mai lasciassi andare un rapporto per assenza di tempo o di voglia le possibilità potrebbero essere due: o quel rapporto non era abbastanza importante e però se dall'altra parte generassi una delusione significherebbe che per tutto il tempo in cui quel rapporto è esistito c'è stata una dis-comunicazione; oppure vorrebbe dire che sono diventata una che dà modo alla vita di fottere la sua esistenza che, ad oggi che mi reputo ancora “pura”, non sarebbe tale senza le persone che hanno camminato con me fino a qui. Dò l'ultimo tiro e mi viene in mente una frase di John Lennon: “la vita è quello che ti sta succedendo mentre tu ti impegni a fare altri piani”.
Spengo la cicca tra l'amareggiato e il consapevole, alzo lo sguardo e vedo che dal cancello della comunità entrano alcuni ragazzi che portano a peso un lenzuolo bianco.
Man mano che si avvicinano noto delle macchie rosse nella parte superiore. Mi passano davanti e capisco che quel peso è un corpo, che quel rosso è sangue.

La signora Mita aveva più di ottant'anni ed era la mamma di Irene “la gorda”, proprietaria di una bottega nel paese vicino. Ogni giorno si diceva che Mita facesse quasi un chilometro a piedi per portare cibo da una vereda all'altra. Quella mattina, complice il fango tipico della stagione delle piogge, la signora è scivolata spaccandosi la testa su un sasso. Se ne è andata in un'ora, senza nemmeno dare il tempo di portarla in ospedale.
I ragazzi della comunità la stavano trasportando nel chiosco del villaggio, lo stesso dove la sera precedente si aveva rumbeado fino alle due del mattino per festeggiare la Fiesta de las madres.
Le persone da quel momento hanno cominciato un incessante pellegrinaggio per salutare la senora Mita. Non era l'ultimo saluto come lo intendiamo noi, fatto di volti scuri talvolta forzati. I bambini correvano e giocavano attorno al chiosco mentre le madri dicevano una preghiera o facevano due chiacchere. I leaders della comunità dall'autoparlante reclutavano volontari per scavare la fossa in quel pezzo di jungla poco fuori dal villaggio adibito a cimitero. Per tutta la notte le luci sono rimaste accese mentre gli uomini, cinti attorno alla salma, giocavano a domino dandosi il cambio per non lasciarla sola.
Il giorno successivo abbiamo partecipato al funerale. E' stata una scena alla Amici Miei: la fossa scavata il giorno precedente era piena di acqua piovana; le grida di dolore delle nipoti venivano coperte dalle suonerie per cellulari più di cattivo gusto della storia; la signora Irene guardava impazientemente l'ora per il timore che si facesse troppo tardi per rincasare. Il buio è sceso tra i banani del cimitero mentre venivamo docciati dalle secchiate d'acqua e fango che grossolanamente eruttavano dalla fossa per far posto alla bara. Le risate venivano lasciate uscire libere, senza il timore di risultare fuori luogo.
Sul sentiero verso casa, mentre alzavo il naso per vedere le stelle, pensavo alla signora Laura. La vecchia che abitava sopra casa dei miei e mancata qualche mese prima della mia partenza. La signora Laura è stata la prima ad insegnarmi i canti partigiani; indimenticabili i suoi cracker Doriano con il salame a metà pomeriggio, le caramelle al limone comprate all'alimentare di via Castiglione e tagliate con il coltello per non farci soffocare.
Le tre notti precedenti al suo funerale i parenti l'hanno lasciata sola, con una semplice luce accesa e la finestra della sala lasciata socchiusa. Ricordo che una di quelle sere, rincasando un po' brilla alle quattro del mattino, ho spalancato la finestra e ho messo a tutto volume “Quel mazzolin di fiori” e “Bella Ciao”; l'ho fatto per tigna, per sentirmi meno sola, perchè si sentisse meno sola.

Le stelle si moltiplicavano tanto da affaticare gli occhi e io riflettevo:  forse il senso di una vita di comunità è anche questo. Se il dolore di uno diventa il dolore di tutti, se lo si condivide, è possibile che la sua intensità si attenui? La compassione accelera il tempo di recupero da una sofferenza?

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