sabato 26 maggio 2012

Vittorio


Alla fine, il giorno del nostro arrivo non c'era nessuno della guerrilla. Dopo un breve passaggio alla cancha per salutare i membri della comunità ci siamo diretti verso il luogo che ci avrebbe ospitato per quei cinque giorni. La casa della famiglia di DM. Alla quale dovevamo fare protezione era troppo piccola ed affollata per ospitarci, così abbiamo deciso di sistemare amache e relative zanzariere in quella che una volta era la foresteria per gli internazionali che facevano da scorta, e che si trova poco distante dall'abitazione di DM.
Ho detto una volta perchè attualmente quel posto è “abusivamente” occupato da uno dei figli di DM, W, che da qualche hanno si è auto-esiliato dalla famiglia dopo aver intrapreso una convivenza con G., una donna di 10 anni più grande di lui e madre di due figli. La maggiore dei due, alla tenera età di 16 anni ha avuto un bambino da un altro figlio di DM (e qui si intuisce perchè le soap operas sono state create in America Latina). Ricapitolando: W è al contempo zio e bisnonno acquisito del piccolo che a sua volta è figlio di della sua figliastra nonché cognata. Un macello.
Dato che non c'è limite al peggio, la tensione umana, che si respirava palpabile nell'aria che riempiva la prateria dove sono ubicate le due case, era fomentata da uno scenario visivo del tutto che accogliente.
Poco prima di partire mi è capitato di vedere un film orrendo di un certo Zombie (nome del regista del tutto rassicurante), parlava di una famiglia texana realmente esistita negli anni settanta che  ha massacrato non so quante decine di persone conservandone i corpi mutilati in casa.
Ora, immaginatevi una di quelle case da Far West con i porticati in legno leggermente rialzati da terra ed i tetti in lamiera. Pensate ad un porcile nel senso letterale del termine, con scrofe che si aggirano per il portico divorando pannocchie sgranate, merde di gallina ovunque, pelli di scoiattolo inchiodate alle travi e vestiti da bambino gettati a terra striati di fango e sporcizia.
Al nostro arrivo tre pappagalli cinguettano incessantemente alla ricerca di cibo interrompendo un silenzio inquietante. Approfittiamo dell'assenza degli inquilini per posizionare le amache sotto il portico facendo attenzione ai buchi della lamiera per evitare spiacevoli sorprese notturne dovute alle piogge torrenziali. Ad un certo punto uno dei due volontari che sono con me mi fa: “Tu che parli di cani pelle ed ossa, vieni a vedere questo”.
E' così che l'ho visto per la prima volta, l'omologo canino di un prigioniero di Aushwitz eranascosto sotto le assi del porticato. Le orecchie grandi come quelle del mio White e due occhi tra il giallo e il marrone incredibilmente belli e sorprendentemente vivi. Non un filo di carne, una zampa posteriore devastata da un'infezione mai curata dovuta ad un lancio volontario di machete.
Tiro fuori un pacchetto di biscotti avanzato dal cammino. Lo divora.
Guardo il volontario: “Non è che gli daresti anche il tuo se non l'hai mangiato?”.“Io veramente farei volentieri merenda e poi detto sinceramente non credo che gli servano a molto i miei biscotti”. Ha ragione lui penso, non avrei risposto lo stesso ma non lo posso biasimare. Poi rincara: “Comunque mi sa che te la devi mettere via che prima o poi qui lo vedi un cane che ci rimane”.
Abbasso lo sguardo, giro l'angolo, trovo una cassetta di plastica vuota e inerme, la calcio con tutta la forza che ho in corpo. Posso accettare che in questo contesto centinaia di animali muoiano per malattie banali non curate per assenza di veterinari, ma no, non mi metto via che un essere vivente ne lasci crepare un altro di fame. Torno indietro, accendo una sigaretta e mi rivolgo alla capa “Scusa ma perchè non lo ammazzano?”, “Mah guarda era così anche un mese e mezzo fa, uccidere un cane in Colombia porta mala suerte solo che si vede che non pensano possa più essergli utile con la gamba così”. Penso figli di puttana, dico “Bastardi”.
“Bhe scusa ma perchè non te lo porti in Italia se ti prende così male” dice lei in tono serio e vagamente provocatorio, “Mi sembra un tantino esagerato comunque se l'alternativa è lasciare che questi continuino questa tortura...”, “Ce li avresti i soldi per farlo curare ad Apartadò?”, “Non lo so, ma posso chiedere in Italia, se si fa colletta a tirare su 100 euro ci metto due secondi, più che altro mi accordi il permesso di portarlo al campo base finchè non capisco come curalo?”, “Ah se te ne occupi tu...”.
Mi ero cacciata in una cosa più grande di me ma non credo sarei riuscita a fare altrimenti, tanto più che dopo poco mi sono trovata davanti ai “padroni” di quel cane, alias la Famiglia Adams, che in maniera divertita mi spiegavano che era il cane che non mangiava e che loro una volta ogni due tre giorni gli davano gli avanzi del riso, che l'avevano anche purgato ma evidentemente era proprio il cane che non ne voleva sapere.
Non ho neanche finito di ascoltare quello che dicevano alla capa intenta a fargli la morale. Sono ritornata da lui, l'ho guardato ed istintivamente gli ho detto “Vittorio adesso ci penso io a te”. E lui, a dimostrazione che gli animali a volte pur non parlando insegnano, si è alzato in piedi ed ha scacciato due maiali che si avvicinavano alle galline che mangiavano. Come a dire che era ancora utile.
L'ho chiamato Vittorio come un ragazzo ammazzato un anno fa mentre lottava assieme ad un popolo che pur non essendo il suo da morto gli ha dimostrato più gratitudine che il nostro. Un ragazzo  ucciso  perchè credeva in quella resistenza e nel diritto alla terra che la alimenta. Un uomo che come altri ha fatto del suo esporsi, della non passività, la sua tomba.
Vittorio ripeteva spesso una frase: Restiamo Umani. Ed è tutto ciò che ho pensato davanti a quel cane, a quelle persone che per un istante con il loro cinismo e distacco dall'umanità mi stavano facendo ribollire il sangue portandomi alla reazione sbagliata.

Nessun commento:

Posta un commento