Alla fine, il giorno del nostro arrivo non
c'era nessuno della guerrilla. Dopo un breve passaggio alla cancha per salutare
i membri della comunità ci siamo diretti verso il luogo che ci avrebbe ospitato
per quei cinque giorni. La casa della famiglia di DM. Alla quale dovevamo fare
protezione era troppo piccola ed affollata per ospitarci, così abbiamo deciso
di sistemare amache e relative zanzariere in quella che una volta era la
foresteria per gli internazionali che facevano da scorta, e che si trova poco distante
dall'abitazione di DM.
Ho detto una volta perchè attualmente quel
posto è “abusivamente” occupato da uno dei figli di DM, W, che da qualche hanno
si è auto-esiliato dalla famiglia dopo aver intrapreso una convivenza con G.,
una donna di 10 anni più grande di lui e madre di due figli. La maggiore dei
due, alla tenera età di 16 anni ha avuto un bambino da un altro figlio di DM (e
qui si intuisce perchè le soap operas sono state create in America Latina).
Ricapitolando: W è al contempo zio e bisnonno acquisito del piccolo che a sua
volta è figlio di della sua figliastra nonché cognata. Un macello.
Dato che non c'è limite al peggio, la tensione
umana, che si respirava palpabile nell'aria che riempiva la prateria dove sono
ubicate le due case, era fomentata da uno scenario visivo del tutto che
accogliente.
Poco prima di partire mi è capitato di vedere
un film orrendo di un certo Zombie (nome del regista del tutto rassicurante),
parlava di una famiglia texana realmente esistita negli anni settanta che ha massacrato non so quante decine di persone
conservandone i corpi mutilati in casa.
Ora, immaginatevi una di quelle case da Far
West con i porticati in legno leggermente rialzati da terra ed i tetti in
lamiera. Pensate ad un porcile nel senso letterale del termine, con scrofe che
si aggirano per il portico divorando pannocchie sgranate, merde di gallina
ovunque, pelli di scoiattolo inchiodate alle travi e vestiti da bambino gettati
a terra striati di fango e sporcizia.
Al nostro arrivo tre pappagalli cinguettano
incessantemente alla ricerca di cibo interrompendo un silenzio inquietante.
Approfittiamo dell'assenza degli inquilini per posizionare le amache sotto il
portico facendo attenzione ai buchi della lamiera per evitare spiacevoli
sorprese notturne dovute alle piogge torrenziali. Ad un certo punto uno dei due
volontari che sono con me mi fa: “Tu che parli di cani pelle ed ossa, vieni a
vedere questo”.
E' così che l'ho visto per la prima volta,
l'omologo canino di un prigioniero di Aushwitz eranascosto sotto le assi del
porticato. Le orecchie grandi come quelle del mio White e due occhi tra il
giallo e il marrone incredibilmente belli e sorprendentemente vivi. Non un filo
di carne, una zampa posteriore devastata da un'infezione mai curata dovuta ad
un lancio volontario di machete.
Tiro fuori un pacchetto di biscotti avanzato
dal cammino. Lo divora.
Guardo il volontario: “Non è che gli daresti
anche il tuo se non l'hai mangiato?”.“Io veramente farei volentieri merenda e
poi detto sinceramente non credo che gli servano a molto i miei biscotti”. Ha
ragione lui penso, non avrei risposto lo stesso ma non lo posso biasimare. Poi
rincara: “Comunque mi sa che te la devi mettere via che prima o poi qui lo vedi
un cane che ci rimane”.
Abbasso lo sguardo, giro l'angolo, trovo una
cassetta di plastica vuota e inerme, la calcio con tutta la forza che ho in
corpo. Posso accettare che in questo contesto centinaia di animali muoiano per
malattie banali non curate per assenza di veterinari, ma no, non mi metto via
che un essere vivente ne lasci crepare un altro di fame. Torno indietro,
accendo una sigaretta e mi rivolgo alla capa “Scusa ma perchè non lo
ammazzano?”, “Mah guarda era così anche un mese e mezzo fa, uccidere un cane in
Colombia porta mala suerte solo che si vede che non pensano possa più essergli
utile con la gamba così”. Penso figli di puttana, dico “Bastardi”.
“Bhe scusa ma perchè non te lo porti in Italia
se ti prende così male” dice lei in tono serio e vagamente provocatorio, “Mi
sembra un tantino esagerato comunque se l'alternativa è lasciare che questi
continuino questa tortura...”, “Ce li avresti i soldi per farlo curare ad
Apartadò?”, “Non lo so, ma posso chiedere in Italia, se si fa colletta a tirare
su 100 euro ci metto due secondi, più che altro mi accordi il permesso di
portarlo al campo base finchè non capisco come curalo?”, “Ah se te ne occupi
tu...”.
Mi ero cacciata in una cosa più grande di me
ma non credo sarei riuscita a fare altrimenti, tanto più che dopo poco mi sono
trovata davanti ai “padroni” di quel cane, alias la Famiglia Adams, che in
maniera divertita mi spiegavano che era il cane che non mangiava e che loro una
volta ogni due tre giorni gli davano gli avanzi del riso, che l'avevano anche
purgato ma evidentemente era proprio il cane che non ne voleva sapere.
Non ho neanche finito di ascoltare quello che
dicevano alla capa intenta a fargli la morale. Sono ritornata da lui, l'ho
guardato ed istintivamente gli ho detto “Vittorio adesso ci penso io a te”. E
lui, a dimostrazione che gli animali a volte pur non parlando insegnano, si è
alzato in piedi ed ha scacciato due maiali che si avvicinavano alle galline che
mangiavano. Come a dire che era ancora utile.
L'ho chiamato Vittorio come un ragazzo
ammazzato un anno fa mentre lottava assieme ad un popolo che pur non essendo
il suo da morto gli ha dimostrato più gratitudine che il nostro. Un
ragazzo ucciso perchè credeva in quella resistenza e nel
diritto alla terra che la alimenta. Un uomo che come altri ha fatto del suo
esporsi, della non passività, la sua tomba.
Vittorio ripeteva spesso una frase: Restiamo
Umani. Ed è tutto ciò che ho pensato davanti a quel cane, a quelle persone che
per un istante con il loro cinismo e distacco dall'umanità mi stavano facendo
ribollire il sangue portandomi alla reazione sbagliata.
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