lunedì 26 novembre 2012

carta da parati


Strappo la carta da parati, mi sfogo a grattare via con unghie di lamina gli strati di una vita, gli strati dei ricordi. Tiro via i pezzi e osservo sulle pareti le immagini astratte che lasciano. Vedo il profilo di una ragazza coi capelli raccolti in uno chignon  e la lascio lì a riflettere sul tempo che passa.
Ci sono giorni che non riesco più a grattare, mi siedo sul letto, osservo i muri scrostati e interrogo lei. “Ti senti sola?” le chiedo. “A volte” mi dice. “A volte quando?”. Il silenzio lo puoi sentire che rimbalza sulle pareti ancora umide, ti sfiora la pelle, fa drizzare i peli. “A volte ho paura che certe cose non torneranno più, mi faccio prendere da tardive crisi adolescenziali, ma non è questo, questo non mi fa sentire sola, è semplicemente malinconico”. “E allora quando è che ti senti sola?”.”Quando realizzo che nessuno mi ama, quando sto male e non c’è nessuno che mi stringe…”. “E’ questo che ti fa sentire sola?”. “No quello che mi fa sentire sola è che non sono più in grado di dirlo”, “Di dire cosa?” le chiedo, “che ho bisogno di qualcuno che si prenda cura di me”.
Appoggio le mani sulle ginocchia e fisso la ragazza. Mi chiedo se sono così anche io. Statica come lei, intrappolata dalla paura di strappare tutti gli strati e di ritrovarmi nuda come questa parete. Spogliata dell’involucro, sono attraente come quando vesto tutti i veli di precauzione? Se di carta da parati se ne mettono fogli su fogli certo le crepe esistenti le si nascondono, ma che dire di quelle nuove? Le pareti sono in continuo assestamento, è un periodo di “crisi” sismiche e lì sotto, sui muri una volta lisci e color porcellana, si fanno largo delle piccole venature silenziose che ti si manifestano solo se ti prendi lo sbattimento di scrostare, di raschiare e di grattare.
Sono uscita per guardare in faccia la domenica, mi sono rivestita di strati per non essere vulnerabile al freddo. Ero in via Sant’Isaia che puntavo il giornalaio  quando davanti a me un bimbo che avrà avuto quattro anni e teneva stretto il dito del suo papà gli dice: “No papà, non voglio andare al parco oggi perché sono ferito”. Il padre continuando a camminare gli ha risposto: “E allora al parco non ci andiamo. Stiamo a casa io e te e curiamo la tua ferita”.
Ho pensato alla ragazza coi capelli raccolti e alla sua solitudine figlia dell’incapacità di chiedere le cure a qualcuno quando si sente ferita. I bambini sono così semplici ed essenziali nel vedere e sentire il mondo. Non hanno bisogno di strati, nessuno si stupisce se loro si feriscono, se chiedono aiuto. 

giovedì 15 novembre 2012

nonna


Lasciare andare le persone è la cosa più difficile di questo mondo, se poi la persona che se ne va è tua madre il processo deve essere ancora più complesso. Devi liberare dalle tue attese la persona che ti ha dato la vita.  Un figlio pensa, ma questo in generale fino alle immancabili delusioni, “cazzo sei stata in grado di darmi la vita, vuol dire che sei in grado di fare di tutto, tu sei un ente supremo”. Così è stato molto curioso osservare tre fratelli di 60 e passa anni, reagire in maniere differenti a questo momento. Ogni tanto guardavo mia nonna e immaginavo che potesse dire: “ne fora da le bale tuti”.
Già perché “tuti” in questi momenti s’improvvisano dottori, fisioterapisti, tuttologi. Mio padre è riuscito a dire “cosa vuoi che ne sappia l’infermiera”; mia zia prima dell’arrivo del dottore ha spruzzato del Dove sotto le coperte; mio zio nel tentativo di cambiarle la bombola dell’ossigeno l’ha forata con il risultato che nel corridoio di casa della nonna per venti minuti sembrava di essere in una pubblicità delle Vigorsol. Sono rientrata in stanza e le ho detto: “Se non facevamo casino non eravamo noi nonna”, so che mi avrebbe voluto strizzare l’occhio.
Il ventaglio che sventolava sul suo volto creava delle ombre in continuo movimento, la guardavo con gli occhi semi chiusi agitare la mano destra, alzarla quasi ad invocare qualcuno o qualcosa che in quel momento era davanti a lei.
Così ho iniziato a immaginare ciò che potesse vedere e sentire. Ero china su di lei, sventolavo e immaginavo le ombre lasciate dagli uccelli sulla sabbia nel loro battere incessante. Tuttavia, lei non avrebbe mai potuto vedere dei gabbiani, lei veniva dalla montagna, era la nonna che leggeva le favole con le illustrazioni ad acquarello: lei vedeva usignoli, decine di usignoli dalla pancia color ocra che svolazzavano intralciando il sole che le colpiva il volto in una camminata tra i boschi.
Mi sono avvicinata, rallentando il mio sventolare, volevo che sentisse il piacere della brezza di montagna. Siamo state un po’ insieme su quel sentiero, abbiamo calpestato le foglie gialle e arancioni, incontrato persone. L’ho seguita mentre bambina correva incontro a suo padre portandogli in dono un quadrifoglio, ho allontanato il vento quando ho sentito che lo chiamava perché volevo che lui la sentisse. Quando si agitava perché incontravamo i lupi o gli austriaci della prima guerra la trascinavo via afferrandola per la mano, le dicevo: “nonna, vieni che andiamo” e lei veniva.
Sgocciolare acqua tra le labbra livide di una persona alla quale abbiamo voluto bene, sapendo che questo non cambierà di fatto le cose, è un gesto violento celato da cura. Lo fai perché non puoi non farlo ma rappresenta la resa della vita che si ha davanti. Così mi sono immaginata che in quella siringa ci fosse una pozione speciale che assorbita dalla lingua le sarebbe servita per mantenere maggiore contatto con il mondo del bosco. Una sorta di eroina che le concedesse un perenne stato di nirvana.
Ero seduta su una sedia vicino alla finestra, eravamo sole, io leggevo le parole “incrociate”, come le chiamava lei e come ha insegnato a dire a me. Fuori il sole batteva sulle montagne sopra Trento illuminando le sfumature autunnali. Ho alzato gli occhi e le ho detto: “Non ne puoi più vero, nonna?”, e lei in un secondo ha aperto le palpebre guardando nella direzione dell’ombra che per lei probabilmente rappresentavo, so per certo che voleva dirmi “Sì, son straca”.
Se ne è andata un giorno dopo quello sguardo sfumato, tre giorni dopo il suo novantaseiesimo compleanno. Lasciarla andare per me ha significato lasciare andare la sola persona che nella mia vita ha recitato il suo ruolo dall’inizio alla fine. Doveva essere nonna e nonna è stata. Le sue frittatine e il suo spezzatino non li mangerò mai piu’ con quel sapore lì. Nessuno mi asciugherà più il moccolo con i fazzoletti di stoffa tenuti nella manica. La nonna è l’unica persona che mi ha sgridato come si sgrida un bambino. E’ l’unica donna che mi ha obbligato ad andare a messa.
I ruoli tra di noi non si sono mai invertiti: non mi sono mai dovuta preoccupare di lei, non ho mai dovuto dirle che mi sarei aspettata un altro comportamento. Se ce l’avessi davanti ora le direi questo, la ringrazierei per la semplicità del suo amore, del nostro rapporto. Le direi che una come me ne aveva bisogno, ogni tanto, di normalità.

martedì 6 novembre 2012

Ri-metto in piedi la mia vita partendo da un armadio,
l'avevano detto pieno di cose memorabili, è così.
Ci sono gli scalda-muscoli che solo tu pensi di essere alla moda se li porti,
le mutande degli uomini che hai amato e che ora sono i pigiami estivi della donna sexy, un pò maschile;
i vestiti della zia Lucia, che non vuoi dirle che erano fuori moda gia' dagli anni '80,
Passano i vestiti arriveranno le cose,
già le cose... le cose poi si accumulano,
le magliette costruiscono i palazzi della vita che tutti stretti, molto fitti, quasi a toglierti il respiro dello sguardo che a volte è dovuto, stanno lì, senza disequilibri,
scandiscono bene anni, mode, musica, ritmi.
Ma stasera vaffanculo,
che queste torri di babele fatte di piccoli momenti possano crollare su se stesse,
mischiarsi in un groove,
ENJOY THE GROOVE
DLANGO DJANGO-STORM

martedì 4 settembre 2012

penna


e' curioso, perchè adesso scrivo per la prima volta dopo 5 mesi sapendo che nessuno verrà a leggere e posso lasciare che queste lettere scivolino sotto ai tasti senza pretese.
il clic tic di un pensiero che forse è troppo semplice ed elementare per poterlo raccontare.
so che c'è un ritmo nelle parole che scrivo ed è il solo che riesco a sentire. so che vivo nel mio mondo senza ambizione, fatto di illusione, che non porta a a nulla se non la sconcertazione di chi vive nell'androne di una terra fatta di devo, se no, però, ma poi, e poi.
odio la biancheria che sa di profumato, amo l'odore che è dato dal contatto,
odio che quel detersivo si porti via tutta la magia fatta di questo ritmo che mi prende e che mi manda via.
sarà fanatico ma amo tutto ciò che è empatico, e viaggerò e nuoterò fino a che tutto questo come un insieme di nuvole diventerà compatto.


lunedì 20 agosto 2012

Se acabo´

Sono in areoporto, fra pochi minuti mi imbarco sull'aereo che mi riportera´a casa. Come mia usanza non ho dormito, ho preferito ballare fino alle sei del mattino il forro´con alcune persone conosciute nell'ostello di Pipa.
Non so che dire, e´una sensazione strana. Negli ultimi cinque mesi sono stata abituata a raccontare di me e delle cose che mi succedevano attraverso questo blog percio´preferisco dirmi che lo sto solo mettendo in stand-by, che non passera´tanto prima che io torni a scrivere di un paese, delle sue persone, della sua pólitica, della sua musica.
Corro a fumare l´ultima sigaretta, ma prima voglio provare al volo a scrivere i nomi delle persone che ho conosciuto in questo ultimo mese di viaggio, cosi´, pérche la mente e´strana e puo´darsi che l´Italia mi rincoglionisca tanto da farmeli dimenticare:
Thom
Josephine
Costantine
Luis
Carlos
Thomas
Maggy
Diego
Raphael
due ragazze austriache
Paul
Catarina
Diane
Marco
Pex
Diego
Omolo
Domenic
Julian
Valchiria
Grbriela
Matt
Yael
Miro
Yuri
Harm
Angela
Daviña
una serie interminabile di ragazzi e ragazze con cui ho ballato

sicuro che ho dimenticato qualcuno, magari i loro nomi, sicuramente non i loro volti, le loro risa, le loro voci.
http://www.youtube.com/watch?v=Hn7WsSQhu_8

venerdì 17 agosto 2012

Praia do Amor

La partenza e´dietro l´angolo, una parte di me ancora non ci crede che tra pochi giorni i miei piedi calpesteranno un terreno italiano. Da una parte l´immenso piacere di rivedere il mio cane, i miei amici, la "famigghia"; dall´altra una malinconia preventiva che mi assale ogni qualvolta mi penso a Bologna in autunno, ogni qualvolta mi fermo a parlare con altri ragazzi che magari sono solo a meta´del loro viaggio. Ora ricordo gli occhi persi verso il Rio di Thomas, il francese sulla barca per Manaus; quando l´ho conosciuto gli restava una settimana al fronte di un anno in giro per il mondo, per non buttarsi giu´gia´pianificava il suo trasferimento a Barcellona per lavoro nel giro di sei mesi; E cosi´e´per tutta la gente vagabonda che ho inocontrato finora, ognuno con gia´in testa la prossima meta, come i surfisti che da queste parti non terminano di cavalcare un´onda che gia´stanno guardando alla prossima che arriva.
I surfisti... qui a Pipa ce ne sono davvero a decine, tutti sulle loro tavole aspettando l´onda piu adatta ai loro standard. Ieri ho passato tutto il giorno ad osservali mentre si avvitavano tra le increspature dell´acqua, ogni volta tornando al largo con una costanza e una devozione degna di una medaglia. Io non sono attratta da questo genere di sport, mi piace osservarli ma non credo sarei in grado, non  penso sia pigrizia: solo attitudine. Ho nuotato coi delfini, questo si´, c´e´una spiaggia in cui i delfini arrivano due volte al giorno a seconda del mare e della marea, all´inizio non ci credevo ma poi, quando una coppia di flipper mi e´saltata a tre metri ho dovuto ricredermi.
Nonostante Pipa sia piu´turistica e piu´trafficata di Jeri, ha  un legame con il mare, con le sue creature e i suoi tempi che non ho mai visto da nessuna parte. Quando arrivi la prima cosa che fanno e´ darti in mano la mappa delle spiaggie e gli orari delle maree, alta e bassa, per ogni singolo giorno dell´anno. Non farci caso significa restare bloccato in una spiaggia sull´oceano Atlantico, e qui a Pipa il paesaggio e´ molto piu´aspro rispetto alla costa di Maranhao. Ricorda molto il sud del Portogallo. Palme che si affacciano su rocce a picco sul mare. Onde che possono raggiungere i cinque metri in venti minuti.  Ieri pero´ mi sono arrischiata e sono andata in una spiaggia di notte, Praia do Amor; una ragazza che lavora nell´ostello mi ha detto che c´era la festa di compleanno di un suo amico e che avrei dovuto unirmi.
Quella di ieri sera e´stata l´ennesima conferma a quanto diceva il saggio africano: a volte le risposte alle domande che ci facciamo arrivano nel momento in cui cessiamo di cercarle. La domanda era: ma nella costa Brasiliana e´vero che e´tutto un misto tra musica, rituali tribali nella foresta e spiaggie bianche e deserte incontaminate? Risposta: non e´tutto cosi´, ma puo´essere cosi´e quando e´cosi, e´magico, qualcosa che nella tua vita difficilmente ritroverai.
Sono arrivata alla Praia verso le undici, ieri era luna nuova percio´il buio,se non fosse stato per le nuvole piene di umidita´, impediva di distinguere tra cielo e mare. Davanti a me un sentiero di lanterne ricavate da alcune bottiglie di plastica tagliate. Quando arrivo sono un po´imbarazzata, non parlo una parola di portoghese percio´posso solo comunicare in spagnolo, dopo un po´arriva una coppia di raggazze con una bambina che avra´avuto 5 anni. Monatano una tenda vicino ai due ombrelloni bianchi che proteggono il mixer , la chitarra e il tamburo. In sottofondo musica di dijiridoo e djambe´. Arriva Wilson il festeggiato: "Ciao io sono Wilson, questa e´la mia festa di compleanno, siete arrivati un po´presto, comunque tra poco si mangia, nel frattempo se volete prendere una birra o una caipirinha, fate pure come se foste a casa vostra. Solo cercate di stare attorno al fuoco. Qui attorno e´pieno di uova di tartatarughe marine e anche se non e´stagione e´sempre meglio evitare di distruggere eventuali buchi dove depositano". Wilson mi parla in brasiliano ma facendo attenzione a scandire bene le parole, poi mi presenta ad un ragazzo, li´per li´non faccio caso alla sua vena folle ma noto che in un lobo, al posto di un orecchino ha infilato una piuma di traverso, come usano alcuni indigeni dell´Amazzonia.
Il ragazzo mi guarda e mi chiede se voglio una caipirinha, io annuisco e lui mi fa cenno di seguirlo dirigendosi verso la foresta che si inerpica sulle pareti della spiaggia. Forse alcuni potrebbero pensare che e´inprudente seguire uno sconosciuto in un bosco in Brasile, ma uno nella vita va anche a sensazioni e questo tipo era strano ma non cattivo. Ho fatto bene perche´lo spettacolo che mi sono trovata davanti era degno di un racconto. Dopo aver camminato per cinque minuti nel sentiero buio, con solo la sua ruvida mano nera come guida ho intravisto delle luci, ed ecco che inaspettatamente mi sono ritrovata in un rifugio segreto, fatto da un tetto di paglia, una piccola cucina economica, un frigorifero. Alcune assi di legno e lavagna erano state tagliate per ricavare un piano d´appoggio alto quanto un angolo bar. I ceppi delle radici secche delle piante della zona, che sembrano delle mani in attesa della carita´, utilizzati come porta utenisili. Una panca, alcuni sgabelli e una doccia all´aperto. Il ragazzo e´troppo fuori per poter parlare lento ma reisco comunque a capire qualcosa. Questo e´il suo rifugio perche lui e´il guardiano della spiaggia chesi trova in un'area protetta del ministero dell´ámbiente. Il governo invece che pagare la forestale paga lui ma soprattutto gli consente di vivere li´in mezzo al bosco, a patto che lui si assicuri che nessuno deturpi la zona.
 Si mette a tagliare un cocco e mi chiede di prendere il ghiaccio dal frigo, assisto alla preparazione del cocktail piu´assurdo del mia vita attonita, grata per essere in quel posto in quel momento. Acier, cosi´si chiama il ragazzo, si ferma di colpo. Mi guarda dritto negli occhie e mi dice: ti faccio un regalo. Prende una candela e qualcosa da una cesta di paglia e mi chiede di seguirlo. Camminiamo qualche metro ancora nel bosco e arriviamo ad un altare. Gli accendo la candela, lui la ripone sulla pietra ed e´allora che noto qualcosa di veramente strano: due ciotole piene di pop corn. Acier mi prende le mani e mi dice che questi tre semi che mi sta donando sono come la lampada di aladino; di notte per tre volte, posso esprimere tre desideri e aspettare che si avverino. Dopo di che devo donare quei tre semi ad un altra persona. E´una follia per molti, per lui no, come non e´folle chinare il capo davanti alla candela che illumina i pop-corn e dire grazie prima di congedarsi da quel luogo.
Quando torniamo alla cucina nascosta arrivano le due ragazze della tenda, sono assieme a Wilson che prontamente chiede ad Acier di fare un cocktail anche per loro mentre lui rolla una canna di erba. I cocktails ci vengono serviti in una mezza noce di cocco, a noi ragazze Acier aggiunge anche una mezza fetta dárancia e un fiore. E´forte, molto forte, ma il latte che ha aggiunto serve a mitigare la vodka. E´una situazione surreale, io e le due ragazze argentine continuiamo a guardarci incredule, come a dire: che spettacolo. Finito di fumare, Acier mi prende il cocktail e lo da in mano ad una delle altre due ragazze, gli servo per portare alla festa una pentola piena di riso e pesce che lui ha cucinato. Cosi´eccomi li´, che attraversavo il sentiero nel bosco con una pentola bollente in mano, ad una festa di sconosciuti alla quale ero arrivata da meno di un´ora.
Il resto e´la storia di una festa splendida su una spiaggia a Pipa, con una tavola da surf impiantata nella sabbia a segnalarla, musica reggae, caipirinhas, stelle ed erba. Non mi sono trattenuta piu´che tanto, davvero non conoscevo nessuno e in parte non volevo abusare del Fato che era gia´stato abbastanza gentile da avermi fatto vedere qualcosa che la gente che viene a Pipa non vede.
Quasi sono tentata a non metter piu´il naso fuori fino alla mia partenza per ritornare con il ricordo immacolato di quella che e´stata decisamente la sera piu´assurda vissuta finora in questo paese. E poi ho altro a cui pensare, tre desideri, con la certezza che si avvereranno in maniera indelebile. Sembra una stupidaggine ma provate  a pensare a tre cose che siete sicuri di desiderare, ora  e sempre, nella vostra vita.

http://www.youtube.com/watch?v=usksH8B07do

martedì 14 agosto 2012

Lost in Jeri, wasted in Fortaleza



Scrivo dall´ínternet point della Rodoviaria di Fortaleza. Ho appena salutato Diane, la mia compagna di viaggio olandese che e´stata con me nelle ultime due settimane. Ieri sera per festeggiare la nostra ultima notte assieme siamo uscite con Yahel, una ragazza israeliana che vive a New York. P. E´stato surreale perche´ per la prima volta dal mio arrivo in america del sud, ho sentito della musica elettronica ed ho visto dei brasiliani in difficolta´nel ballare. Onestamente mi sono sentita a disagio, non voglio fare un commento da radical chic del cazzo ma: che senso ha attraversare l'oceano per trovarti in un bar che potresti tranquillamente trovare a Ibiza o a Marina di Ravenna? Cosi´mentre le altre ballavano io mi sono messa a chiaccherare con Bask e Simeon, due ragazzi del posto che fanno artigianato; Simeon e´di Florianopolis e li´ha una scuola, quando non e´stagione di wave surf si mette a viaggiare e fa collane con tutto cio´che trova, riesce a guadagnare fino a 300 reales a sera. Bask dipinge a mano delle magliette stupende, mi e´dispiaciuto non avere i soldi per comprargliene una, non hanno nulla a che invidiare a quei disegnetti  minimal che piacciono tanto ai  ragazzi italiani.
Quando ha iniziato ad illuminarsi il cielo ho raccattato le mie compagne di venture e le ho trascinate in spiaggia, volevo fare il bagno di notte nell´oceano ma ormai il giorno stava prendendo piede,  La Praia principale e´protetta alla sua sinistra da un´immensa duna  che si sposta come si sposta il vento e dalla quale si dice che si vede uno dei tramonti piu´belli di tutto il Brasile. Attorno alle cinque di pomeriggio, dalla Praia si puo´osservare un formicaio di persone che s' indirizza verso la montagna di sabbia ed incomincia a risalirla. E' un curioso fenomeno da osservare: in cento persone si riuniscono nel medesimo luogo per vivere un attimo che dovrebbe essere rubato al caos. In questi giorni non sono mai andata, ho sempre preferito osservare quelle formiche risalire il monte e godermi il tramonto dalla spiaggia, dove la gente del posto faceva l´ultima partita a calcio e la roda de capoeira aveva inizio.
Stamattina pero´ ci siamo ritrovate praticamente sole davanti alla duna spoglia e due ore che ci separavano alla partenza per Fortaleza. Cosi´ci siamo arrampicate e abbiamo visto il sole salire alle spalle del villaggio, in un atmosfera dai colori perlati, ghiacciati. Abbiamo sorseggiato l´ultima caipirinha al kiwi ridendo per nulla e poi, come foglie, ci siamo lasciate rotolare giu dalla scarpata fino alla riva. Ci siamo tolte i vestiti e ci siamo tuffate per levarci la sabbia. E´stato stupendo, intimo. Il modo migliore per lasciare Jeri e chiudere questo ennesimo capitolo del mio viaggio.
Lasciare prima Yahel e poi ora Diane e´stato triste, pero´credo che sia arrivato il momento per me per sperimentare davvero un po´della sensazione di spaesamento che ti da il viaggiare totalmente sola.
Fra sei ore ho l´autobus che viaggera´tutta la notte e mi portera a Praia de Pipa, tutto da rifare, almeno per questi ultimi sei giorni di viaggio. Non so davvero come sara´tornare ad una vita dove tutto e´piu´statico, stabile, familiare.

sabato 11 agosto 2012

Jeri-caipi-shaky

Dopo una notte in un squallido motel davanti alla Rodoviaria di Paranaiba sono approdata  a  Jeri, piccolo villaggio sulla costa attorniato da dune. Niente a che vedere con la purezza di Lençois ma ugualmente un posto magico dove comunque ci si può godere metri di spiaggia deserti. Ho trovato una pousada gestita da una buffa ragazza tedesca che ha sub-affittato il villino da un tale di Barcelona; e'una piccola comune, ognuno dà una mano, tutti i muri sono dipinti da lei con farfalle e fiori, amache dovunque. Angela, così si chiama la ragazza, mi ha chiesto  se voglio stare qui e dare un mano in cambio dell'alloggio gratis e un pasto. Ci sto pensando, il Brasile e' molto piu' caro di quello che mi aspettavo e ho deciso di fermarmi un paio di giorni in più' qui, per fare il viaggio fino a Fortaleza con Diane, la ragazza olandese con la quale sto viaggiando. Così la proposta di Angela cade a fagiuolo.
Qui si sta bene, la brezza dell'Atlantico rinfresca ventiquattro ore su ventiquattro e ogni sera, al tramonto, c'è una roda di capoeira sulla spiaggia, è capoeira regional dove l'arte marziale è visibile ad occhio nudo.
I tempi sono più' rilassati, si esce a mezzanotte e si va in quella che chiamiamo caipi-street e che altro non è che un susseguirsi di chiringuitos che fanno ogni genere di shekerato con la frutta. Ho fatto amicizia con una ragazza di New York che fa agopuntura e piano piano mi sto convincendo a provare.
E'strano sono qui da tre giorni ma mi sento già a casa, e' una sensazione nuova dopo tutti questi mesi  sempre con la sesazione di essere in prestito, finalmente qui mi sento più a casa come, e capisco quanto le relazioni con le persone con cui convivi il tuo quotidiano influenzino il tuo benessere interiore.
Stasera e'sabato : notte di forro', il ballo di coppia del posto. Sono capaci di andare avanti fino alle sette del mattino, io francamente dopo un po' mi stufo, trovare un ragazzo brasiliano che sia alto almeno quanto me e'praticamente impossibile e percio mi tocca nascondermi in un angolo per evitare che ogni 5 minuti qualcuno venga a chiedermi di ballare.
Ogni modo potrebbe essere l'ultima volta che ho occasione di ballarlo in questo viaggio quindi mi applicherò, chissà magari una caipirinha al melone dal mio barman di fiducia, soprannominato shaky carlos, mi aiutera' ad essere più' sciolta.

martedì 7 agosto 2012

da Saõ Luis a Lençois Maranhenses

Questo viaggio sta continuando con una rapidita´che mi terrorizza. A volte cerco di spegnere il faro del signor futuro che come un tarlo inizia a forarmi la coscienza in cerca di risposte. Ci sono luoghi come Saõ Luis dove farlo e´semplice, una piccola Barcelona sull´Atlantico che ogni sera offre uno spettacolo diverso e dove la gente la si conosce con una facilità imbarazzante. E' in citta´come queste che capita che conosci i tuoi futuri compagni di viaggio in un ostello, come le due ragazze che mi hanno seguito fino alla riserva naturale, oppure che i musicisti reggae ti fermino per strada per proporti di andare a questo piuttosto che quel concerto il giorno successivo. Tutto scorre; tutto, volendo, ti dà modo di non pensare.
Poi pero´arriva il momento della despedida e le cose, si sà, hanno il loro perche´. Percio´ti ritrovi in uno di quei posti che l´uomo non ha ancora plasmato seconodo le sue necessità eccessive. Dove non esiste asfalto ma solo sabbia, palme e stelle. In questi posti il faro si accende con un bagliore quasi acciecante, e sempre in questi posti ti può capitare di ritrovarti a camminare per tre ore sulla riva di una spiaggia deserta. A pensare ad ogni affondare dei piedi nella sabbia fangosa che cosa vuoi essere.
Sei sola, attorno a te non c'è nessuno, né compagni di viaggio, né turisti, né locali: solo tu e l'ombra che precede chi cammina la mattina verso nord ovest. In quei momenti puoi dirti che vorresti solo poter continuare a viaggiare e a scrivere; puoi ammettere a te stessa che credi di non farcela perché in fondo non sei così brava. Mentre l'acqua si alza e ti appoggi la borsa sulla testa per passare tra le mangrovie pensi che non vorresti sentirti in colpa per questo, per non essere dentro gli schemi, per avere quasi 27 anni e non sapere cosa voler fare da grande, perche´non hai fatto ingegneria, non hai fatto medicina, non hai scelto perché sentivi la pressione di doverlo fare.
Le mangrovie si diradano e ti ritrovi in un sentiero tra l'erba arida, davanti a te si aprono delle colline di sabbia e ti accorgi che nel mentre pensavi, tu sola, sei comunque arrivata al deserto. Al cuore di quel parco, senza una mappa, solo andando dove le gambe ti portavano.
Continuo ad ignorare quello che la natura mi sta dicendo."Vorrei avere le palle", mi dico mentre mi avvicino alla sabbia bianchissima che crea le dune, vorrei avere le palle per fare come ha fatto Marco, che in questo posto ha aperto un a Pousada e una scuola di kite. Vorrei avere le palle per riuscire a fare quello che voglio fare, sbattendomene del fatto che per soppravvivere forse dovrò servire ai tavoli.
Cammino ed i piedi non affondano nei granelli di sabbia come mi sarei aspettata, le dune sono solide, forti più della spiaggia che mi ci ha portato. Arrivo in cima e mi siedo, ma una volta che appoggio il sedere mi rendo conto che la sabbia che arriva negli occhi mi costringe a strizzarli e a ridurre la visuale del paradiso che ho davanti.
"Non ha senso fare tutta questa strada per poi sedersi", ero in cima ad una duna nel deserto che si affaccia sull´Atlantico. Cosi mi sono alzata, ho aperto le braccia, ho dato le spalle al vento ed ho iniziato a guardare. E più guardavo e più sentivo viva. La testa era vuota, non c'erano voci che comandavano pensieri, non mi vedevo da fuori: ero libera.
Forse il mio essere "nomade", come dice la mia psicologa, è anche un tentativo costante di sfuggire agli schemi sociali, alle loro etichettature. Sono tante le cose che vorrei fare nella mia vita, e forse alcune riuscirei a farle anche bene, so che sarei una buona mamma, so che sarei una buona coordinatrice di progetto, so che so amare con tutta me stessa, so che l'incomunicabilità del dolore che mi provocano certe cose mi fa scrivere di pugno e arrivare  a chi mi circonda. Ma non ho lo slancio per dare a queste cose una sequenza. Per questo preferisco vivere alla giornata e al momento. La Colombia, tutto questo viaggio sono nati da questo tipo di condotta di vita.
In piedi sulla duna rifletto ad alta voce come al mio solito, mi accorgo che parlo spagnolo, che penso inglese e che sento in italiano. Mi lascio rotolare giù dalla collina di sabbia come quando da bambina le cose a casa andavano male e salivo sulla cima dell' albero per guardare le Due Torri che spuntavano tra i tetti, poi risalivo il prato della scuola materna e facevo i ruzzoloni.


Come dice Anna Politkovskaia: ¨la vita e´piu´complessa delle parole che cercano di spiegarala".

mercoledì 1 agosto 2012

Sempre tem jeito

"Ma dai questo e´un Ipod touch?"
"Eh si"
"E fa le foto?"
"Si"
"Fa vedere?"
(....)
"Ah che bello, ne faccio una?"
"Bho come vuoi"
Dialogo con Omolo il mio vicino di pc. 
Uomo con occhiale (foto a dx). 

Alla fine sono gia´ approdata a Saõ Luis de Maranhao. Avrei dovuto fermarmi una notte a Belem ma arrivata alla stazione degli autobus ho scoperto che ce ne era uno che partiva la notte stessa ed ho deciso di lanciarmici. Onestamente non vedevo l'ora di arrivare qui ed avvicinarmi il più possibile all'oceano.
Niente contro Belem, per carità, però fa troppo caldo per stare in una metropoli cosi´ed onestamente non e´che ci fossero chi sa quali musei o cose da vedere. Ho avuto il tempo per fare un giro verso la zona del porto, che in generale è quella che mi affascina di più in queste città. In più in questo porto finisce il Rio delle Amazzoni e avevo voglia di dire "ciao" al Rio; non voglio sembrare hippy ma questi mesi alla Comunità mi hanno dato un rapporto differente con la natura. Essere arrivata qui in aereo dopo quei giorni splendidi di navigazione mi è dispiaciuto.
Al porto ho trovato uno splendido e caoticissimo mercato all´aperto ed una serie di graffiti belli mimetizzati tra le pareti rovinate. Per il resto le strade erano stipate di gente e bancarelle di vestiti e costumi da bagno, sempre più kitsh, sempre più sgambati. Notevoli una serie di sexy shop che proponevano uno splendido completino intimo da Ape Maya; mi sono immaginata la faccia di un uomo italiano che va a pagamento con una di queste splendide e altissime signorine che si vedono agli incroci, salvo poi sentirsi dire: "E adesso tiro fuori il pungiglione". L´ho detta a Fra, non l`ha capita. Voi si vero?
Stamattina sono arrivata a Saõ Luis che erano le 9, arrivata in ostello sono morta a letto per qualche ora e poi sono andata a fare un giro. E´stupenda, ricorda l´Alfama di Lisbona. Azulejos da tutte le parti, piccole strade ciottolate e palazzi scoperchiati come piacciono a me. E´vero che è la città del reggae, lo si ascolta dovunque e stasera spero vivamente di andare a ballare in uno dei localini che ci sono.
Toccherà conoscere un po´di gente qui all´ostello e vedere se ho fortuna come nella settimana passata nell´incontrare persone con cui mi trovo bene e che son sulla mia stessa lunghezza d'onda.
Viaggiare comunque e´anche questo, conoscere persone nuove con le quali fare un pezzo di strada assieme, il sogno sarebbe riuscire ad incontrare qualcuno che va in direzione del Parco Naturale Lençois Maranhenses. Il viaggio fino a là dura due giorni, e sei in mezzo al deserto di dune intervallato solo da qualche villaggio percio´essere in buona compagnia aiuterebbe.
Chissa´se dovra´essere sara´. Altrimenti, come dicono qui: Sempre tem jeito! (Cé´sempre un modo).

lunedì 30 luglio 2012

Hostal Manaus

Stanotte prendo un aereo e vado a Belem, il tempo qui a Manaus è volato ed è stato di un intensità incredibile.
L´altra sera alla fine sono andata a quella festa di brasiliani ed e´stato assurdo: se un gruppo di 6 persone straniere si presentasse ad una festa in Italia senza conoscere nessun credo che come minimo verrebbe scrutato da testa a piedi e che difficilmente sarebbero stati messi a loro agio come è successo a me.
Era un villa mezza distrutta in un quartiere residenziale di Manaus costituito per lo piu´da compounds; nel giardino avevano messo delle lanterne di carta e allestito un palco. Tutta la notte fino alle sei di mattino hanno suonato musica rock internazionale.
All´inizio mi sentivo come un pesce fuor d´acqua, ero li´con due svizzere super fricchettone, un peruviano di nome Diego che è all'ostello da 3 settimane, un gallese di 39 anni fuori come un melone ma simpaticissimo. Li osservavo e da solita paranoica ho iniziato a pensare che ognuno di loro aveva la sua dimensione, tranne io. Un po' non parlare la lingua, un po´perche´era la prima volta che vedevo tanta gente in festa dopo mesi, mi sentivo rintronata. Diciamo che la Caipirinha ha aiutato a sciogliermi. Alle sette del mattino eravamo tutti perfettamente integrati, troppo forse, dato che Carl il gallese ha preso il microfono e si e´messo a cantare Sunday Blody Sunday degli U2 con un intensità´che sembrava dovesse morire domani.
sul tetto della casa c'era una sorta di capannone abusivo dove tenevano i vecchi arredamenti di un locale. Quando è spuntato il sole eravamo seduti con l'ultima birra che guardavamo i tetti della periferia. Mi sono detta che ero felice di aver seguito il mio istinto.

Quella di ieri è stata una giornata strana, nella quale la mia testa cercava conferme di qualsiasi genere e il mio corpo necessitava di riprendersi dalla resaca: spiaggia del Rio Negro. Lì, in questa sorta di Miami fluviale, ho avuto la prima conferma: il 90% delle tipe brasiliane porta il perizoma filo interdentale.
E' stato abbastanza umiliante mettersi in costume data la mia abbronzatura da tedesca con segni delle canotte, spalle e braccia nere, culo e gambe mozzarella. Una volta che ci siamo ripresi a suon di litri di acqua di cocco, alla sera siamo stati ad un concerto di musica reggae in un centro sociale molto carino e, finalmente, ho ballato un po' di reggae e conosciuto dei ragazzi e delle ragazze brasiliani. Seconda conferma del giorno: il 90% dei brasiliani e delle brasiliane sa come ballare, cosa che per noi europei è frustrante. Con me c'erano il mio collega italiano, l´amico messicano conosciuto a Leticia e Carl: il messicano ha tirato fuori tutta la sua esperianza da ex-festaiolo e ogni modo essendo latinoamericano se la cavava, Carl girava tutto il tempo con la sua inseparabile birra fingendo di capire quello che la gente gli diceva in brasiliano, poi guardavi l´italiano e lo vedevi lì, contro-tempo, agitare il polso all'aria.
Sono salita sul balcone della casetta occupata a fumare una sigaretta. Guardavo la gente passare per strada, i bambini che facevano da palo agli spacciatori, i ragazzi che si bevevano una birra fuori dall'entrata. Mi aggrappavo a qualsiasi cosa per evitare di andare lì con la testa.
Lì è a quella mattina, quando uscendo dalla doccia che dava sul salone dell'ostello mi sono trovata davanti Thomas. A lui che mi dice che sarebbe stato lì fino alla sera alle undici perchè poi aveva il volo per Rio. A lui che al mio rientro dalla spiaggia si ferma con me in terrazza, si fa raccontare della festa e mi parla, mi parla con gli occhi. La mia testa continua ad a quel momento, prima di andare al centro sociale quando sono passata a salutare le ragazze austriache che erano sul tetto ad ascoltare musica, lo trovo lì che gioca a dadi con la sua ragazza. Poi quando lei l'ha lasciato solo per andare su internet mi sono avvicinata. "Sto andando ad una festa in un centro sociale qui vicino, vuoi venire?""Non posso devo stare vicino ai bagagli perchè non fanno servizio di deposito".  Quel momento in cui ho capito tutto: non era vero che erano in quell'ostello per necessità reale, né per caso."Non mi dispiaceva l'idea di vederti...","E' meglio che vado, non vorrei che Maggie si arrabbiasse".Ci siamo sorrisi. Non un bacio, non un accenno allo scambiarsi un contatto per rivedersi. In quel momento ero in piedi sulle scale che lo guardavo, per la prima volta ci osservavamo in un posto che non era la barca. Eravamo splendidi. Eravamo due persone che si erano trovate. E' incredibile quanto un addio avesse la carica emotiva e sensuale di un primo incontro, ma d'altronde nulla di quello che sentivo per lui aveva senso. "Chissà, magari in un'altra vita...", mi dice facendo il tipico sorriso da furbo che sa che dall'altra parte hanno alzato bandiera bianca. Abbasso gli occhi,"Lo spero, lo spero veramente". Avrei potuto rimanere in ostello, passare con lui ancora qualche ora, ma che senso aveva rovinare quell'immagine, quel momento.

Domani si riparte. Prossima tappa Belem.

sabato 28 luglio 2012

Down to the river



Alcune persone avrebbero trovato quattro giorni di navigazione sul Rio delle Amazzoni troppo pesanti. Viaggiare su una nave cargo, stipati nelle amache, cibo sempre uguale...io l'ho trovato magnifico.Il modo piu'bello per entrare in Brasile, con Il fiume che sembra un mare che fa da specchio a tramonti psichedelici. Un viaggio del genere o lo odi o lo ami. Le ore sono identiche, la caoticità in alcuni momenti è ingestibile, le persone sono fuori di testa, alle 8 nell'ora di punta sulla poppa della nave vieni impezzato come in piazza santo stefano ai vecchi tempi. I vecchi brasiliani bevono fino a star male giocandosi tutti i soldi a carte; i migranti di tutta l'America del sud ovest che viaggiano in Brasile in cerca di fortuna si passano segreti per tessere al meglio braccialetti o artesania da vendere per strada. Io ho avuto fortuna, ho incontrato alcune persone in viaggio come me con cui condividere quelle situazioni. Sembrerà eccessivo ma 4 giorni su una barca ti portano a dei livelli di confidenza con le persone che puoi non raggiungere con un compagno di corso. C'era Javi lo scroccone colombiano machista che ti guarda e ti dice:"A te ci penso io", con il quale ho passato ore a discutere di parità tra i sessi mentre lui mi faceva la cavigliera. C'era "l'anonimo belga", che sembrava Tanguy del film francese e che era stato designato come prossima vittima delle mire d'affari da Javi. E poi c'era Thomas, un ragazzo francese con il quale ho passato la maggior parte del tempo. Stava chiudendo un viaggio di un anno con la sua compagna Maggie. Le cose non erano andate proprio secondo i piani e così mentre lei passava le ore al piano inferiore a leggere, io e lui ci siamo raccontati dei reciproci viaggi  e delle nostre vite. Un giorno io , lui e Javi abbiamo rischiato di rimanere a terra perchè siamo corsi ad uno spaccio di un villaggio per comprare una bottiglia di cachasa. Quella notte io e Thomas siamo rimasti fino alle 4 di mattina a raccontarci aneddoti, a parlare di musica, a guardare il cielo che si annullava nel Rio. Onestamente non mi aspettavo che la persona con la quale mi sarei sentita più in sintonia dopo anni potesse essere un francese fidanzato su una barca in Amazzonia. Il destino ha un grande senso dell'umorismo a volte.
Ora sono a Manaus, con me Jorge, un ragazzo messicano di 39 anni, tatuato maya su entrambe le braccia che avevo conosciuto a Tabatinga: fa sorridere vedere come si sia attaccato ai miei piani per la troppa pigrizia di crearsene uno lui. Alcune persone sono così', si lasciano cullare dagli eventi e dalle cose che gli mettono gli altri davanti. Io no, almeno quando viaggio voglio essere padrona delle possibilita' che la vita mi da. Dopo un'ora ero nell'ostello, birra gelida in mano, attorno a me la città che circondava la terrazza dal tetto in legno. Un peruviano e uno svizzero attaccano ad un amplificatore i Fat Freddy's Drop e capisco che sono nel posto giusto. Forse stanotte vado ad una festa a casa di alcuni ragazzi brasiliani, diciamo che seguo quella che in qui chiamano "la buona onda".

martedì 24 luglio 2012

C'erano un'italiana, un austriaco e due tedeschi...

Domani prendo la barca che per quattro giorni mi portera' sulla schiena del fiume piu' grande del mondo. Stamattina ho attraversato il confine per andare a prenotare il biglietto e finalmente l'ho visto: Il Rio. Sembra di essere davanti un'autostrada a 8 carreggiate marrone, e' inutile raccontare qualcosa di diverso da cio' che e' solo per fare colpo su chi legge. Questi giganti d'acqua, soprattutto nelle loro insenature vicine ai porti di snodo, sono il ricettacolo dell'inquinamento del mondo. A me non importa, ho sempre subito il fascino dei luoghi un po' decadenti e con odori strani, non so, forse perche' in qualche modo mi sembrano piu' vissuti degli altri.
La barca che mi ospitera' e' una barca cargo, stamattina alle undici gia' era piena di zucchero, di latte, di mais, di pane in cassetta. al piano superiore un ponte aperto e lasciato aperto per le amache che i viaggiatori attaccano, una vicino all'altra, e che diventano le loro cuccette nei giorni successivi. Dev'essere un'esperienza e non vedo l'ora.
Per il resto, come promesso, mi sto riadattando ad una vita normale. Lentamente faccio meno caso a che tipo di divisa hanno le centinaia di militari che come sempre mi circondano e penso di piu' alle persone civili che incontro. Nell'ostello ho fatto amicizia con un po' di persone: due fratelli tedeschi e un austriaco. Ieri sera siamo stati a bere sotto un capanna di paglia, raccontandoci un po' di storie. Thomas, l'austriaco, e' partito dopo aver terminato gli studi in medicina ed e' in giro da 2 mesi. E' stato in Ecuador, in Peru, in Bolivia, in Argentina, in Brasile... Mi dice che e' stanco di dover salutare le persone nel momento in cui ci entra un po' in confidenza e che e' contento che sua madre lo raggiunga domani a Bogota', cosi' per avere il gusto di stare con qualcuno con cui non devi traccontarti da capo. Penso che sono nella situazione opposta, che io ho appena cominciato a viaggiare e che passerei le mie ore a raccontare e farmi raccontare delle persone che incontro. Costantin, e' medico anche lui e ha fatto il tirocinio nella sezione traumatolgica dell'ospedale di Cali': dopo due mesi era letteralmente sconvolto dal numero di feriti per arma da fuoco che aveva dovuto soccorrere. Sua sorella Josephine e' una macchietta, mi ricorda Camilla, forse perche' studia design di moda o perche' esaltata mi ha mostrato una collezione di piatti di plastica trashissimi che aveva appena deciso di portarsi in Germania e che mi ricordavano il gusto anni 80 della mia amica. Sfortunatamente tutti rimangono da questa parte della frontiera ma stasera ci salutiamo a dovere: appena finito di scrivere vado a prendere la carne per fare un ragu e poi andiamo a rumbeare. La sola idea di ballare un po' mi stampa un sorriso a 150 denti.
Scrivero' una volta a Manaus, capitale dello stato federale dell'Amazzonia. Non riesco a immaginare lo shock culturale di trovarmi di colpo in una metropoli brasiliana senza sapere una parola di portoghese e dopo 4 giorni nella foresta amazzonica. Ma forse e' anche questo il bello, non sapere, non immaginare.

lunedì 23 luglio 2012

Una boccata d'aria

Quando dal finestrino dell'aereo ho guardato giu' ed ho visto questa distesa di alberi non ci credevo, eccolo il polmone del mondo, un mare che sembra fatto di broccoli e del quale non riesci ad intravedere i confini: un oceano verde.
Inizia la seconda perte del mio viaggio, dai toni sicuramente piu' rilassati, dai colori piu' accesi rispetto a quelli del Pollock. Non la considero la parte migliore perche'e' totalmente differente rispetto al senso che hanno avuto questi tre mesi come scudo umano, li' il senso delle mie azioni, del mio muovermi era per gli altri; ora inizio a muovermi per me, per la mia liberta' di conoscere questo pezzettino di mondo. E le persone che lo abitano o lo transitano.
Leticia e' una cittadina della riviera romagnola sul Rio delle Amazzoni, ci sono le sale giochi, i negozi con i materassini gonfiabili, i tuc-tuc. Dormo in un ostello un attimino fuori dal centro, che sembra immerso dentro una mini giungla e dove i dormitori sono delle palafitte che si affacciano su  un lago privato.  Doccie in bambu per due "cosi' insomma se una coppia vuole fare la doccia insieme...ci siamo capiti". Non bisogna farsi ingannare dalle apparenze, è un lugo tanto bello quanto misterioso e cutre. Il proprietario e' Gustavo, colombiano trapiantato in Belgio per non so quanti anni. Dice che ha studiato filosofia e che conosce tutto di questo posto, e' vero, non sembra che possa accadere nulla all'interno dell'ostello senza che lui lo sappia. Ad aiutarlo c'e' Olga una donna con un eta' indefinibile  a causa di un probabile abuso di sostanza stupefacenti nel passato. Passa il suo tempo a parlare da sola o con il cane, la adoro, mi ricorda me negli ultimi 3 mesi.
Mi fermero' qui fino a mercoledi' e pòi passero' il confine brasiliano per prendere la barca che da Tabatinga mi portera' a Manaus percorrendo il Rio delle Amazzoni. Sfruttero' questi due giorni per riadattarmi ad orari socialmente utili, che in vacanza evidentemente non sono svegliarsi alle sei ed andare a letto alle nove e mezza.
Ieri sera per fare un po' di training mi sono seduta in un bar vicino ad un signore con un cappello da strege fatto di paglia. Mentre bevevo birre ghiacciate guardavo la gente per strada festeggiare la vittoria dell'Atletico Nacional di Antioquia. La testa e le spalle che, man mano che un po' della bassa gradazione alcolica faceva effetto, iniziavano a muoversi al ritmo della salsa. E' stata la prima sera dopo tre mesi dove sono uscita.

giovedì 19 luglio 2012

La despedida

Da quando sono arrivata e' la prima notte che ho avuto freddo. Il sacco a pelo era imbevuto di umidita', la pioggia, incessante, ha scandito ogni minuto della mia notte insonne.
Poi, finalmente, e' arrivata l'alba e come dicono gli Afterhours sapevo che era li' per me, spuntando ha irradiato i profili delle montagne, le loro punte sono emerse dalle nubi cosi' basse da sembrare un mare in cui le vette affogano.
Apro la zanzariera per godermi meglio lo spettacolo: la luce filtra tra i vecchi alberi di cacao e quando ancora e' tiepida e l'odore e' quello dell'erba alta bagnata, ecco le sagome di due banbini, due fratellini che sembrano usciti dalle fiabe. Sono bimba anch'io e chiudo gli occhi facendo finta di dormire così da poterli sbirciare. Il piu' grande che ha cinque anni sta davanti e si gira per zittire la sorellina. Lei gli rifa' il verso del silenzio con la mano, nell'altra un piccolo pappagallino verde.
Avrei voluto chiudere quest'avventura colombiana con un pezzo sugli investimenti di ENEL nel Quimbo, dove la nostra impresa, statale per il 31%, sta  per inondare piu' di 8.000 ettari per creare una centrale idroelettrica causando cio' che viene appropriatamente definito ecocidio. Pero' poi ho pensato che c'e' tempo, c'e' sempre tempo per scrivere di come certe cose non funzionano a questo mondo.
Quello per cui voglio prendermi il tempo invece e' scrivere di ciò che invece rischio di perdere se non me lo prendo del tempo, quello che c'è dietro la zanzariera prima chiusa. La realtà, non per come la vedresti attraverso i numeri di un articolo o i racconti di un amico. La realtà per la persona che sei e ciò che vede dalla sua amaca. E allora tutto diventa piu' affrontabile: ad esempio intravedere tra la cacotera il monumento in pietra che ricorda il massacro della famiglia di Alfonso Bolivar, quando nel 2005 paramilitari e militari hanno avuto il fegato di uccidere una famiglia intera e di sgozzare due bambini dopo avergli offerto una caramella, e non farmi prendere dalla rabbia. Perche' girando lo sguardo di mezzo millimetro due fratellini si sussurrano scalzi con un pappagallino in mano. Se a quel massacro fosse seguita una rivolta aramata, se non si fossero fermati, se si fosse reagito con rabbia, bhe probabilmente i bambini uccisi con la bocca che ancora sapeva di zucchero sarebbero stati a decine, al posto della cacaotera ci sarebbe della coca.



martedì 10 luglio 2012

Sotto sotto sempre io



DUE GAGS PER GLI AMICI PRIMA DI LASCIARE QUESTO PAESE, FORSE


Il vitello dai piedi di Balsa

                                                                                        Il cobra non e' un serpente
                                  E' un diesel?

Coca, Casa e Chiesa



Per la prima volta da quando sono arrivata ho avuto modo di fare un accompagnamento senza la capa. Forse non mi fa onore dirlo ma è stato un po' come avere la casa libera per il fine settimana quando si ha sedici anni. Adesso che sto per andarmene posso ammetterlo: ho fatto una fatica pazzesca a sopravvivere agli atteggiamenti delle persone con le quali ho lavorato, in particolari i suoi.
Questi giorni libera dal suo controllo mi hanno dato finalmente la possibilità di vivere la situazione in accompagnamento come avrei sempre voluto: prendermi il tempo per farmi stupire dalla natura mentre raggiungo i posti più dispersi; farmi raccontare delle diverse tipologie di mango, fermarmi ad assaggiarle per carpirne la differenza; imparare a distinguere le piante taglienti per evitare di diventare ciò che sono, un corpo coperto di segni; concedermi il tempo, “banalmente”, per stabilire un contatto umano ed intimo con questa gente che dovrei proteggere e con la quale devo convivere; avere la conferma del fatto che con me le persone si sentono a loro agio nel raccontarsi.
Se ci fosse stata lei non mi sarebbe mai venuto durante il cammino di due ore di confessare a Wualbert che l'odore di mango imputridito mi ricorda terribilmente il mercato di Modurua di Nairobi dove mi hanno sequestrato due anni fa. La sua presenza avrebbe impedito a lui di raccontarmi della volta in cui è stato sequestrato dai paramilitari a 12 anni. Non si sarebbe sentito libero di parlare a ruota libera per mezzora, non avrei notato i colpi di verga sul sedere della mula che si facevano più intensi quando la rabbia gli bloccava la voce.
Nulla di questo e di quello che racconterò sarebbe successo, per quanto si tratti di semplici scampoli di vita di progetto, perchè ogni qual volta ho tentato di fare a modo mio, di creare dei canali preferenziali con le persone che mi circondavano, ho sempre avuto la sensazione, talvolta accompagnata da una sua diretta conferma, di essere osservata in attesa di un passo falso. Ciò che mi ha reso la vita difficile è stato il fatto che le ammonizioni non siano mai verificate in maniera costruttiva, seduti ad un tavolo in cui  uno spiega all'altro le ragioni dei suoi comportamenti per trovare una soluzione; il suo è un atteggiamento figlio della più ferrea cultura cattolica parrocchiale, qualcosa che mi mette l'ansia solo a pensarlo figurati a viverlo 24 ore su 24. 
Si tratta di quel modo di agire della chiesa in cui l'obbligo viene addolcito perchè sancito da un uomo che veste di bianco; quel modo di parlare dove ricorre l'utilizzo del “noi” e delle parole “pace e fratellanza” salvo  non rendersi conto che “noi” può voler dire “non tu” e che le voci “pace e fratellanza” stonano molto con i giudizi cocenti sugli stili di vita altrui tipici di questa gente e figli della stessa organizzazione che ha istituzionalizzato l'Inquisizione e l'omofobia.
Ho fatto fatica dunque, molta fatica, ma alla fine, per usare un altro termine che a questa gente piace molto, la “giustizia divina” ha fatto il suo corso e sono riuscita a raccogliere informazioni un po' piu' dettagliate su uno dei business che sta dietro a questa taciuta guerra civile: la cocaina. Ottenere informazioni ufficiali sulla coltivazione illecita in un contesto in cui lo stesso  SAT, il Sistema di Allerta Temprana (un ente istituito dallo stato che si occupa di raccogliere denunce di civili in forma anonima per redigere dei report da pubblicare online ed inviare al governo perchè sia costantemente informato sullo stato delle cose), viene impedito a pubblicare sul web i dati che raccoglie perchè minano gli investimenti internazionali non è un operazione facile. Vivere a stretto contatto con i campesinos quindi, rappresenta un valore aggiunto, con la dovuta cautela è possibile sapere dei prezzi “all'origine” e cosa comporta essere un cocalero; sono informazioni che non ottiene chiunque e che non vengono date a chiunque, perciò sono felice che dopo tre mesi chi me le ha fornite si sia fidato di me.

Perchè diventi produttiva, la pianta di coca ha bisogno di un anno, una volta pronta può fruttare fino a 4 raccolti l'anno e durare 10 anni. Ora, mettiamo che un contadino abbia un ettaro di terra e che decida di coltivarlo a coca: ogni raccolto frutta 150 arrobas, che sono i sacchi di foglie utilizzati come unità di misura. Una arroba equivale a 12 kg di foglie e costa al contadino 5000 CPO (pesos colombiani), ovvero il prezzo che egli paga al raspacino perchè gliela raccolga (è infatti inverosimile che al fronte di una data di consegna il campesino da solo riesca a raccogliere tutte le foglie di coca che produce). Per produrre un chilo di pasta di coca sono necessari 300 kg di foglie e un chilo di pasta fattura al campesino 2200000 CPO. Tuttavia, se il campesino vive in una regione come quella di Cordoba o Antioquia, dove il controllo sul narcotraffico è gestito da FARC e paramilitari, questo si troverà a pagare un pizzo di 400.000 CPO (200.000 per ogni gruppo criminale) su ogni chilo di pasta di coca che vende, la così detta vacuna.
Problema: Quanto fattura alla fine di ogni raccolto il campesino tenendo conto che 1 euro equivale a 2300 CPO? Quanto e' la differenza con quanto fattura il medesimo raccolto in Italia tenendo conto che dopo diversi tagli un chilo di coca nel nostro paese vale circa 150.000 euro?
Soluzione: Un ettaro di terra produce 6 kg di pasta di coca che equivalgono a 10.050.000 CPO al netto della mano d'opera per i raspacinos e delle vacunas per i gruppi armati illegali. Il prezzo all'origine di 1800 kg di foglie che diventeranno, una volta processate, 6 kg di coca è di 4367 euro. I medesimi chili di coca purissima, tagliati varie volte prima che arrivino alle narici italiane spacciati per un puro al 90%, valgono  900.000 euro.
Se poi dopo uno ha la fortuna di avere un contatto diretto con la popolazione campesina si può permettere il lusso di chiedere cosa pensano loro in merito all' ipotesi di legalizzare la coltivazione di coca e si può  rimanere sorpresi nel ricevere come risposta un secco “no, non siamo d'accordo”. Ho chiesto delucidazioni e mi è stato spiegato che dal punto di vista del coltivatore la legalizzazione sarebbe un danno economico: il prezzo della vendita di foglie si abbasserebbe facendo crollare il mercato, chi cerca la coca (in prevalenza noi europei e gli statunitensi) si troverebbe un altro paese in cui fare affari. Ciò che capisco rimarrebbe inalterato è il guadagno pazzesco che fanno organizzazioni mafiose come la 'ndrangheta che narcotrafficano nei paesi consumantori: se l'offerta cala ma la domanda rimane invariata il prezzo del bene sale alle stelle, e dubito che chi consuma abitualmente cocaina sia disposto a rinunciarvici domani.
Alle informazioni dei campesini si aggiungono poi quelle degli incontri informali con gli operatori del SAT i quali, sempre se riesci a stabilire un canale confidenziale con la persona, ti spiegano che sono in possesso di informazioni che stabiliscono con certezza il fatto che i militari stessi sono talvolta proprietari di coltivi illeciti e che spesso e volentieri organizzano finti scontri tra paramilitari ed esercito nelle zone in cui i contadini si rifiutano di coltivare coca per poter recintare militarmente i campi ed impossessarsi del territorio il tempo necessario per impiantare un campo e godersi i frutti del raccolto. Ciò che sta dietro al business e al conflitto infatti, è la cresta che paramilitari e guerrilla riescono a fare sul raccolto, processando le foglie di coca per creare la pasta e proponendosi come intermediari tra i campesinos e le organizzazioni che narcotrafficano fuori dal paese.
Quando ho finito di farmi raccontare del business che sta dietro alla tanto amata polvere bianca ero ben lontana dall'aver esaurito le domande e i dubbi su tutto quello che riguarda quest'argomento, ma mi sono fermata. Ho osservato il mio interlocutore ed ho capito che piu' in là non aveva voglia di andare, davanti a sé aveva un enorme piatto di riso, insalata di avocados e arepa ed il discorso per lui era chiuso li'.

La lontananza di un controllo costante è stata funzionale anche alla possibilità di affrontare discorsi più leggeri, spensierati. Al di là del contesto, della differenza di cultura, spesso ti trovi a fare da scudo a dei coetanei o a gente che ha qualche anno più di te; a volte semplicemente è bello guardarsi una finale (disastrosa) degli europei assieme o parlare della vita, del futuro, “di quella volta che...”.
Un giorno di questi eravamo tutti intenti a fare dei lavoretti di artigianato, io personalmente sto sfidando le leggi della fisica e mi sto buttando sulla tessitura di bracciali e cavigliere in perline (tanto per dare l'idea: quel giorno dopo 4 ore ho finito un braccialetto con il nome di una delle ragazze che ci ospitava salvo poi scoprire che l'avevo scritto nella maniera sbagliata; per la serie: è pur vero che chi persevera vince e che dalla merda può nascere un fiore ma poi non è detto che quel fiore profumi). Dialogo.
“Se potessi scegliere come lo vorresti un compagno, uno con cui mettere su casa?”
Dentro di me penso;: “cazzo già faccio fatica a infilare ste stronze di perline poi tu mi chiedi ste robe...va bhe..”
“Se potessi vorrei qualcuno che mi accompagnasse in questa vita itinerante, una persona abbastanza a posto e adattabile da potersi vivere al meglio ogni luogo in cui è. Se potessi vorrei una persona che mi dica che sono bella anche quando penso di essere un cesso e che sia capace di farmi sentire sua anche in mezzo alla gente senza essere invadente. Se avessi modo di scegliere, vorrei una persona con la quale ridere, con la quale fare l'alba a ballare e bere ma che allo stesso tempo capisca quando queste cose ho voglia di farle da sola con i miei amici. Se potessi sceglierla, vorrei che questa persona sapesse riconoscere quando sto male e che in quei momenti mi guardasse, non dicesse nulla, che mi mettesse una mano sulla testa e mi sussurrasse“ci penso io”. Vorrei una persona che proteggesse la mia persona ed il nostro rapporto prima di ogni altra cosa; che non tradisse me e la mia fiducia. Qualcuno che mi veda come madre dei suoi figli e che per questo non smetta di desiderarmi come donna. E tu?”
“Se potessi vorrei una donna che credesse in Dio, che fosse avventista come me o che rispettasse il mio credo. Sceglierei una donna che ama questo posto e che capisce l'importanza che per me ha vivere nella terra che è stata della mia famiglia. Se potessi sceglierei una donna con delle curve importanti, non grossa, ma con delle forme che si vedono. Vorrei che sapesse cucinare i prodotti che coltiviamo come facciamo noi. Mi piacerebbe una donna che sapesse guidare e che avesse una buona cultura, che leggesse i giornali. Se potessi vorrei una donna che se non ci fossi io si comportasse esattamente come avrei fatto io. Una donna della quale essere orgoglioso insomma.”
“Dici che ce la facciamo a scegliere Walter?”.
Scoppia a ridere: “Io credo di no; quale donna sceglierebbe liberamente di vivere in una finca tra paramilitari e guerrillieri?”.
“Siamo fottuti Walter! Perchè secondo te quale persona trova allettante una donna che adora stare in giro, nei posti più dimenticati da Dio, ballare, bere e che allo stesso tempo non vuole avere 40 anni per fare un figlio? Una bipolare...”.
“Nessuno”, continua a ridere mentre affila il machete, “Comunque per la media colombiana sei già troppo vecchia per fare un figlio, buttati sui balli e sui viaggi”.
“Parli tu che c'hai 30 anni e sei uno scapolo in mezzo al nulla”.
La sorella di Walter ride mentre pulisce la pentola e anche noi continuiamo a ridere, mi mancava questa sensazione di leggerezza dello sfottò tra amici.
“Dai però, idealismi a parte, una cosa in una donna che se la trovi dici: questa me la sposo?”.
“Vediamo”, si fa serio mentre continua a scalfire il legno di cocco, “una che sa cucinare un'ottima torta d'arepa e che mi fa dormire sull'amaca: io sul letto non ci voglio dormire. Tu?
“Ah questo è un grande classico del mio repertorio Walter, lo dico sempre perchè intimamente so che è difficile che accada: un uomo che così, senza motivo, mi prende e mi fa ballare, anche un attimo, un passo a due. Se poi mi regala una bicicletta è l'uomo della mia vita”.
“Non potrei mai essere io, non so ballare e poi non te ne faresti nulla di una bici in mezzo alla selva”.
“Walter nenache io potrei essere la donna per te. Sono atea e dubito di saper cucinare una torta d'arepa”.
Continuiamo i nostri lavori d'artigianato e a ridere delle nostre disavventure amorose. Alla fine Walter mi regala un anello di cocco e mi dice: “vediamo se così ti senti più protetta e ti decidi a scegliere”.

La sera vado da lui e gli traduco un pezzo tratto dalla biografia di un rifugiato sudanese che ho finito di leggere quei giorni, in questo brano racconta della perdita dell'amore della sua vita, conosciuta in un campo rifugiati, ritrovata negli Stati Uniti e lì uccisa da un alttro sudanese che la perseguitava:
“E' fatta apposta per chiudere le nostre chiacchere di oggi sull'amore:
Se mai amerò ancora non aspetterò di amare al mio meglio. Pensavamo di essere giovani e che questo significasse avere tempo per amare meglio in futuro. E' un modo terribilmente sbagliato di pensare. Aspettare di amare non è un modo di vivere.
“E' meglio se imparo bene a farmi la torta di arepa come piace a me”
“Ed io è meglio se vado a piedi”
“Buonanotte”
“Buonanotte Walter”.

domenica 24 giugno 2012

Number 8


Sono piena di difetti ma se c'è una cosa che so fare è affrontare ciò che la vita mi mette davanti con lucidità di analisi e questo mi ha sempre consentito di reagire prontamente. Non significa non crollare, solo tenere la testa alta mentre lo si fa.
Questi giorni però no, ho perso la padronanza dei miei pensieri, la mia testa era come un dipinto di Pollock nel quale i getti di tempera si intersecavano, i livelli di ragionamento si sovrapponevano impedendomi di mantenere il filo.
Senza tregua le emozioni hanno guidato il pennello dei pensieri in maniera apparentemente sconnessa, tracciando schizzi dai colori differenti, ognuno appartenente ad uno stato d'animo, ad ua delle sfaccettature di me che normalmente agiscono distintamente.
Quando siamo partiti per questo accompagnamento ci avevano avvisato che avremmo potuto incontrare i paramilitari ma io non ci avevo fatto troppo caso. C'è gente che è qui da tre annoi e non li ha mai visti perché si ritirano quando i militari gli passano l'informazione che stiamo arrivando. Ma questa volta pare che l'ordine di avanzare, di prendere anche la parte di cordigliera al confine con quella sotto controllo FARC, sia arrivata proprio dall'esercito.
E così ce li siamo trovati davanti fin dal primo istante ed è stato lì, credo, che la mano invisibile che tiene il pennello dei pensieri ha iniziato a scattare, lasciando sul foglio le prime gettate di colore.
Il grigio ha accompagnato le prime ore, che in realtà per quanto infinite messe assieme hanno fatto un giorno. E'il colore dell'incertezza che mi ha colto quando ero sulla mula e stavamo entrando nella vereda, i miei compagni erano dietro di me a piedi, l'accompagnato davanti su un cavallo. Inizialmente non l'avevo neanche visto quell'uomo con la maglietta arancione in cima alla collina dalla cui ombra spuntava la sagoma di un fucile. Un minuto dopo era già a metà della discesa, correva verso di noi, arma alla mano, con altri tre uomini mezzi in divisa. Ci hanno raggiunto sulla piana e si sono fermati a osservare il nostro passaggio; avevo appena finito di dirmi che nel grigiume della prima volta avevo fatto bene a non rispondere al saluto, quando alzato lo sguardo ne ho visti altri quattro. Camminavano dandoci le spalle e andavano nella nostra stessa direzione: davanti a noi la cancha piena di gente perché si giocava la partita del venerdì. Mi ripassavo nella testa la lista di cose che dovevo fare o on fare in quella situazione se afferrare le informazioni che mi autofornivo. Ho lasciato che il color fumo prendesse il sopravvento mentre chi aveva più esperienza di me gestiva la situazione; la testa sapeva dove voleva andare ma c'era troppa nebbia per intravedere la direzione.
Ne ho visti almeno 50 di paramilitari in questi giorni, hanno attraversato la vallata una volta in una direzione una volta in un'altra; sono passati in gruppi più o meno piccoli; a volte in abiti civili, a volte con uniformi, altre incappucciati, si sono susseguiti dandosi il cambio, così come si sono susseguite le domande che mi ponevo e il giallo di cui erano tinte.
Giallo, come il colore di quei libri o quei libri di cui fino alla fine non si può dire con certezza di aver capito il senso. La macchia più grande appartiene a lui, Carlo come abbiamo deciso di chiamarlo per non farci intercettare. Era arrivato la seconda sera nella casa in cima ad una collina dove ci ritiravamo quando la notte calava potendo comunque da li' osservare tutti i movimenti a valle. Si era rifugiato dove ci trovavamo noi perché aveva appena scoperto che i paracos lo stavano cercando; curiosamente chiedevano di lui pur non sapendo che faccia avesse. Sei uomini armati piantonavano la sua capanna e difficilmente avevano intenzione di salutarlo per fare due chiacchere amorevoli.
Avremmo dovuto mandarlo via, non essendo membro della comunità ma semplicemente un suo lavoratore non eravamo tenuti a proteggerlo, anzi, il fatto di ospitarlo in una casa della comunità metteva tutti inevitabilmente nei guai. Ma la famiglia era la prima a avergli offerto rifugio e di fatto quello era un morto che camminava al quale la nostra mera presenza poteva essere d'aiuto per rubare qualche giorno alla vita. La mattina seguente mi alzai e dovetti strizzare gli occhi per scacciare quel bagliore accecante e scendere dall'amaca. Sebbene alle sei e mezza il sole fosse già alto non era l'iridescenza del giorno bensì le mie domande su di lui che mi impedivano di mettere a fuoco: “Cosa ne facciamo di lui?”.
Passarono due giorni e Carlo ci seguì avanti e indietro tra l'avamposto a valle e quello in collina. A volte ci precedeva per carpire informazioni dai passanti sugli spostamenti delle truppe: tutte confermavano che spostarsi da lì sarebbe stato un suicidio perché i paramilitari erano ovunque. Carlo sembrava uno di quei cani randagi che ogni tanto si incontrano, ti seguono a distanza senza incrociare il tuo sguardo, quasi capissero che se questo avvenisse si creerebbe inevitabilmente un legame tra te e lui, e uno dei due sarebbe diventato consapevolmente responsabile per l'altro.
Venne martedì e il giallo lascio momentaneamente spazio ad altri due colori, uno dei quali in realtà aveva già iniziato a marcare il foglio dei pensieri senza però evidentemente trovare uno spazio di sfogo adeguato. Era il rosso resistenza, la cromatura che da che mondo e mondo dà voce alla passione, all'impulsività sanguigna.
Erano circa le dieci del mattino ed eravamo appena scesi a valle, Carlo era già lì che cercava di raccogliere informazioni. Mi ero appena tolta gli stivali per dare un po' di respiro ai piedi intrappolati nella plastica quando Dona A., la padrona della casa in collina ci chiamò dal sentiero. “Correte vi prego ci sono i paramilitari e non so dove è mia figlia”. E' lì che il rosso ha posteriori capisco aver trovato massimo sfogo, perchè mentre gli altri toglievano la memoria dalla macchina fotografica io ho incrociato lo sguardo di Carlo, il quale mi ha fatto la domanda più essenziale e difficile che mi sia mai stata rivolta: “E io che cosa faccio”. La capa che lo lo aveva sentito ha risposto prontamente: “Non possiamo essere responsabili per te” ed ha iniziato a risalire il sentiero. Io abbassato lo sguardo per poi rialzarlo un istante dopo: “Fermati qui, non ti muovere” gli ho detto a bassa voce.
Abbiamo risalito il sentiero e ad un certo punto ci siamo trovati davanti tre uomini armati di AK-47 e M-16. Ciascuno di loro lo teneva ben saldo tra le mani, con la punta rivolta verso di noi. Dona A. era ferma e parlava con uno di loro, in quel momento un manto retato verde scuro è calato sui miei pensieri. Verde, perché è il colore della speranza che è l'ultima a morire ed io in quel momento speravo solo che nessuno ci finisse la sua vita in quell'istante. Scuro perché così è la tonalità di verde di quella parte di selva ed i varchi tra le piante fanno filtrare la luce come li maglie di una rete.
Tempo fa scrivevo che non avevo idea di come ci si potesse sentire nell'incontrare un gruppo armato in mezzo alla giungla. Ecco la risposta, che arriva inaspettata come sempre. Va che assumi una faccia seria, ascolti come queste persone giustificano la loro presenza (in questo caso stavano cercando le batterie di un cellulare che dei loro compagni avevano portato a ricaricare il giorno prima). Continui ad osservarli discretamente cercando una prova inconfutabile del fatto che siano AUC. Di base tieni la testa impegnata per evitare di pensare a che cazzo di situazione stai vivendo ma questo, almeno a me, non è risultato troppo difficile dal momento che al mio fianco c'era una donna alla quale questa gente ha già ammazzato un figlio quattordicenne e che senza perdere la calma ha detto: “Vi chiedo di parlare con onestà, sapete che noi come comunità non prendiamo parte al conflitto armato e quindi non elargiamo favori né ricarichiamo batterie. Vi parlo come madre, non posso accettare di vedere tre uomini armati che entrano nel terreno della mia casa dalla stessa direzione in cui mia figlia si è allontanata”. “Sua figlia è in casa con sua suocera signora, non siamo venuti per ammazzare ma perché abbiamo ricevuto un ordine”.
Quel martedì le parole di quella donna coraggiosa sommate al nostro invito a lasciare rapidamente il terreno hanno fatto sì che i soldati si allontanassero tornando da dove erano venuti, non scendendo quindi il sentiero che portava all'altra caso, dove erano invece diretti e dove c'era Carlo, fermo dove io gli avevo detto di restare. Prima di andarsene però, i paramilitari hanno lanciato un avvertimento a noi e a Dona A.: “Che la legge non sappia che noi siamo stati qui”.
I giorni si sono rincorsi, i colori hanno continuato ad intersecarsi. Continuavo a chiedermi se mi fossi comportata correttamente dicendo a Carlo di restare dov'era; se era stato giusto avviisare le Nazioni Unite, le ambasciate e la Presidenza Colombiana dopo quella intimidazione. Ho proseguito nel frenare la mia vena pasionaria e la rabbia che mi aveva provocato vedere il terrore negli occhi di quella piccola grande donna e che mi faceva dire che non era possibile che come internazionali non potessimo fare di più, che i comunicati stampa dovevano essere più incisivi, che le foto fatte dovevano uscire. Il verde paramilitare ha accompagnato il mio onirico e quando on era così lo interrompeva con i suoi spari e le sue bombe.
 Eppure la luce di tanto in tanto filtrava, bianca, facendomi staccare e pensare che la scusa del cellulare era degna di quelle di uno studente del liceo colto a fare fuga dai suoi genitori. Pensavo che il più giovane dei paracos mi ricordava l'assassino del “Pescatore” di De Andrè, con due occhi grandi da bambino, due occhi grandi di paura che erano specchi di un'avventura. La luce era filtrata l'ultimo giorno mentre il sole calava e scendeva baciando le sagome degli alberi, gli internazionali che avevamo chiamato per darci il cambio erano arrivati, Dona A. rideva assieme alla sua famiglia riunita sui ceppi di legna per cenare, Carlo era scappato la mattina precedente ed era vivo perchè ci aveva telefonato per avvisarci. Cercavo di tirare le somme e per un istante è stato come quando in una galleria d'arte ti trovi a poter fare tre passi indietro guardando un quadro senza inciampare in una comitiva guidata.
Ed eccola là la mia tela cognitiva, per un attimo lo visualizzata, ho intuito che in quell'apparente confusione esisteva una logica, la logica dei diversi livelli del mio inconscio. Ho analizzato i suoi colri e li ho visti prendere forma, chiudersi in un cerchio mentre acquisivano un senso. Solo qualche mese fa non avrei mai pensato che una come me avrebbe potuto apprezzare un Pollock.

martedì 12 giugno 2012

Hip Hip Urra'


Nella regione nord occidentale di Cordoba, 30 kilometri a sud del municipio di Tierralta, può capitare d'imbattersi in una distesa d'acqua vastissima, un lago del quale si fatica a riconoscere i confini a che di primo acchito lascia senza fiato. Come tante altre cose al mondo, la represa di Urra' è una di quelle realtà che dietro ad un aspetto accattivante ed affascinante celano vicende ben piu' torbide e che possono fornire dei tristi esempi di come la costruzione di imponenti infrastrutture può tradursi in imbarazzanti, quanto irreparabili casi di sfruttamento delle risorse naturali e di devastazione del territorio.
Le opere della centrale idroelettrica di Urrà sono iniziate nel 1993 ma già dal 1949 il Governo Nazionale aveva identificato nella conca del Sinu il luogo ideale per  poter sviluppare il progetto grazie al potenziale energetico del fiume. Il Rio Sinu è uno di fiumi più importanti della Colombia e nasce nel Parco Nazionale Naturale del Parmillo, considerato dall'Istituto Nazionale per le Risorse Naturali (INDERENA) che lo creo nel 1977 un ecosistema strategico per la regolazione climatica  e il ricircolo d'acqua dolce. Dalla sua fonte il Sinu scorre per 350 kilometri fino alla sua foce nel mar Caribe, attraversando territori tradizionalmente abitati da comunità campesine ed indigene, e che nei secoli è funta da rifugio per schiavi e popolazioni perseguitate. In particolare nella conca del Sinu vivono le comunità indigene Embera Katiò, ovvero 4256 distribuite in 24 villaggi regolamentati da autorità locali che riflettono l'ubicazione territoriale o i nuclei familiari allargati. Queste popolazioni praticano un'economia di sussistenza che poco lascia ad una commercializzazione esterna.
Per costruire la represa, nel 1999 sono stati inondati 7417 ettari di terra, tutti appartenenti al Parco Naturale e alla Riserva Embera Katio creata curiosamente solo un anno prima dalla Corte Costituzionale. A poco sono serviti nel corso degli anni novanta i numerosi avvisi delle comunità indigene che denunciavano i rischi ambientali e socio-economici ai quali l'inondazione della conca li avrebbe messi in contro: i lavori di costruzione della represa proseguirono incessanti nonostante, e grazie, i molteplici passaggi d'incarico e rimbalzo di responsabilità tra autorità statali ed imprese private.
La vicenda della represa di Urra' infatti, si è susseguita in maniera tutt'altro che regolare. Nel 1979 Interconexion Electrica S.A assunse l'incarico per il “Progetto Idroelettrico di Urrà” salvo cederlo nel 1982 alla Corporacion Electrica de la Costa Atlantica (CORALECA). Nel 1985 CORALECA iniziò i preparativi per la costruzione della represa ed il Governo Colombiano nel 1990, dopo aver dichiarato la conca del Sinu territorio d'interesse pubblico e sociale, approvò il progetto multiproposito Urrà e costituì la impresa URRA S.A, la quale avviò le pratiche per ottenere la licenza ambientale da INDERENA,  che gliela concesse 3 anni dopo nel 1993.
Parallelamente all'aiuto per accelerare la trafila burocratica per la costruzione della  centrale, il Governo Colombiano paradossalmente si mosse anche in direzione delle comunità indigene. Attraverso la Costituzione Politica del 1991 infatti, lo stato riconobbe i diritti degli indigeni alla auto determinazione e all'autogoverno del territorio. In aggiunta, dallo stesso anno lo stato  lo stato si obbligò a consultare preventivamente i gruppi etnici locali ogni qualvolta che le misure che intraprese dallo stesso vanno ad influenzare direttamente le comunità. Il caso ha voluto che questa obbligazione venisse sancita un anno dopo il consenso per il progetto di Urrà e che durante quegli stessi anni in nessuno degli studi effettuati per la costruzione venisse menzionata la presenza delle popolazioni indigene e campesine in quella zona. Kimy Pernia Dorucò, leader embera katiò ucciso nel 2007 dalle AUC per ammissione di Salvatore Mancuso (uno dei più importanti capi paramilitari demovilizados), dichiarava a scanso di ogni dubbio che in quegli anni gli addetti ai lavori passavano i loro territori per fotografare l'area senza fermarsi ed interpellare la popolazione locale.
Successivamente alla mobilitazione dei leader indigeni nel 1994 l'Organizzazione Nazionale Indigena di Colombia (ONIC) conseguì la firma di un accordo con l'impresa URRA S.A per la seconda fase del progetto. Tale accordo impegnava l'azienda a consultare prima di ogni operazione le autorità indigene da lei designate e a compensare l'impatto della centrale con il piano che venne denominato Plan de Etnodesarollo. Tra i punti dell'accordo, delineati in maniera definitiva nel 1996, comparivano il finanziamento del Plan fino al 2000 e il miglioramento dei trasporti ittici nella zona. Tuttavia, la mancata efficacia della rappresentanza indigenza designata dall'azienda portò URRA S.A ad interrompere l'accordo solo un anno dopo, nel 1997. Questa decisione venne appellata alla Repubblica nel 1998 e la Corte Costituzionale nel novembre dello stesso anno dichiarò irregolare il processo di ottenimento della licenza ambientale da parte di URRA' S.A per via dell'assenza di consultazioni con la popolazione locale. Nel medesimo contesto, la Corte dichiarò irreversibili i danni causati alla comunità indigena e l'obbligo per l'impresa di indennizzare la popolazione in maniera da garantire la sua sopravvivenza nel lungo periodo.
Nonostante la sentenza della Corte, nel 1999 la conca del Sinu venne inondata e l'anno successivo la represa venne messa in funzione. Ad oggi, passati 12 anni, è possibile affermare che la creazione della centrale ha portato: alla salatura dell'estuario del Sinu; all'abbassamento del livello dell'acqua del fiume; alla scomparsa di diverse specie di pesci il cui ciclo riproduttivo dipendeva dalla loro libera risalita del rio. L'inondazione ha significato la deforestazione di tutta l'area della represa e l'aumento di malattie dovute all'acqua stagnante. Non di meno, i mutamenti nell'alimentazione della popolazione locale non sono stati compensati dalla libera fruizione di altri beni alimentari in quanto la via d'accesso alla represa per le merci provenienti da Tierralta è il porto del Frasquillo, sotto totale controllo militare.
Se mai esistesse una giustificazione plausibile a tutto ciò la si potrebbe riscontrare nel motivo per il quale questa represa è stata costruita: la produzione di energia elettrica. Eppure la centrale di Urrà produce solo il 3% dell'energia colombiana (340 MW contro i 9800 del totale nazionale) e ironicamente indigeni e campesinos continuano a cenare ogni sera a lume di candela.